giovedì 22 novembre 2018
Nel 2016 gli investimenti con obiettivi ambientali o sociali hano superato i 1500 miliardi di dollari
Quando gli investimenti pensano all'inclusione
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Nel vasto mondo della finanza sostenibile ci sono sostanzialmente due possibili approcci. Il più diffuso è quello che procede per esclusione, scegliendo le società e i settori su cui non investire per ragioni etiche, come possono essere il rispetto dell’ambiente, della salute o dei diritti umani. Questo tipo di strategia ottiene il risultato di liberare l’investitore da investimenti contrari ai principi etici che ha adottato e, potenzialmente, di lasciare a corto di risorse che non rispetta determinate regole. L’altro approccio procede invece per inclusione: si tratta di investire sulle aziende, i prodotti, i progetti o i servizi che possono avere un impatto positivo sulla società. Invece di limitarsi a scartare ciò che non è etico, questo approccio consiste nel mettere le risorse su ciò che lo è. In questi casi si parla di impact investment, investimento a impatto, in italiano.Coniata dalla Rockfeller Foundation undici anni fa, l’espressione “investimento a impatto” è diventata molto popolare nella finanza mondiale. Una buona parte del merito di questa popolarità va data alle Nazioni Unite, che con i Millennium goals prima e diciassette Obiettivi di sviluppo sostenibile poi hanno offerto al mondo finanziario una lista molto dettagliata di aree su cui si può intervenire per migliorare il mondo. Secondo l’ultima Impact Investing Market Map pubblicata in estate da Pri, il principale centro di analisi mondiale dell’investimento sostenibile, nel 2016 gli investimenti a impatto sono ammontati a oltre 1.500 miliardi di dollari: 228 miliardi di investimenti a impatto “tradizionali” su aziende e attività che hanno poco mercato e quindi non sono attraenti per un investitore standard e 1.300 miliardi di dollari di investimenti a impatto considerati "mainstream", che cioè coinvolgono strumenti e aziende molto liquide, dove qualsiasi tipo di investitore potrebbe mettere i suoi soldi.

La Pri ha combinato i risultati di 450 report realizzati da agenzie dell’Onu, aziende, università, indici e società di database e ha quindi individuato le dieci categorie di possibili interventi per investimenti a impatto: l’efficienza energetica; gli edifici ecologici; l’energia rinnovabile; l’agricoltura sostenibile; la forestazione sostenibile; l’acqua; l’abitare sostenibile; l’educazione; la saluta e la finanza inclusiva. Ognuno di questi temi si ricollega almeno ad uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Per centrare quegli obiettivi, ha stimato la stessa Onu, occorrono investimenti da 3.900 miliardi di dollari all’anno e considerato che le risorse messe a disposizione dagli Stati non arrivano a metà di questa cifra, c’è da sperare che gli investimenti a impatto continuino ad espandersi.In alcune aree la crescita è già formidabile. Stanno vivendo un vero boom i green bond, obbligazioni che servono a finanziare progetti ambientali: dalla realizzazione di impianti di energia rinnovabile alla costruzione di edifici ecosostenibili, passando per i progetti per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica al più generale tema del risparmio energetico. Secondo un rapporto di Standard & Poor’s nel 2013 ne erano stati emessi 13 miliardi di dollari, nel 2017 la cifra era già decuplicata raggiungendo i 155 miliardi e le stime dicono che quest’anno potrebbero arrivare a 200 miliardi di dollari. Una crescita del 29% in un solo anno. Anche se quell’obiettivo, secondo una recente indagine di Moody’s, adesso è a rischio perché nel terzo trimestre dell’anno le vendite di bond verdi sono diminuite del 18% nel confronto con un anno fa: colpa di un mercato finanziario diventato più difficile ma anche della concorrenza di altre forme di investimenti a impatto. Sono ad esempio in forte crescita anche i social bond, le obbligazioni che si propongono obiettivi sociali: sono raccolte fondi per progetti come l’aiuto ai senzatetto, l’accesso all’educazione per i bambini, la prevenzione del crimine.

Il loro mercato è ancora piccolo, secondo Dealogic vale meno di 10 miliardi di dollari all’anno, ma sta crescendo: i 3,5 miliardi di raccolta del secondo trimestre dell’anno hanno doppiato il precedente record storico. Sul mercato sono comparsi anche i primi social bond di grandi dimensioni, come quello della banca statale olandese Nwb che ha raccolto 2,2 miliardi di dollari per progetti di edilizia a prezzi calmierati. In Italia Ubi sperimenta i social bond dal 2012 e in questi anni ha raccolto un miliardo di euro con strumenti di questo tipo. Tra gli ultimi progetti finanziati dalla banca lombarda c’è stato ad esempio quello da 20 milioni di euro per Ail, l’associazione contro leucemie, linfomi e mieloma. Anche la Cassa Depositi e Prestiti nel 2017 ha lanciato il suo primo social bond, da 500 milioni di euro, con l’obiettivo di finanziare le piccole e medie imprese localizzate in aree economicamente depresse o colpite da disastri naturali. Nel 2018 ha replicato con un secondo bond, da 500 milioni di euro, stavolta con l’obiettivo di migliorare l’infrastruttura idrica italiana. Per tutti questi strumenti vale una regola generale della finanza sostenibile: non si tratta di beneficenza, ma di investimenti. E quindi anche i green o i social bond pagano rendimenti, a volte anche elevati, e hanno i loro livelli di rischio. Ma la loro efficacia non si misura solo in termini finanziari: conta anche in che modo sono riusciti a centrare gli obiettivi di sostenibilità promessi. Per il risparmiatore scegliere strumenti del genere significa usare i propri soldi per contribuire a obiettivi positivi, e senza rimetterci.

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