sabato 14 novembre 2020
Si stimano 6,4 milioni di smart worker “estensivi” e 1,6 milioni “ibridi”, in parte vincolati alla presenza. Solo circa tre milioni sarebbero in grado di operare in modo realmente "intelligente"
Una postazione di un lavoratore agile

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Nel nostro Paese ci sono potenzialmente 6,4 milioni di smart worker “estensivi”, quasi un terzo del totale degli occupati, che per specifiche competenze e condizioni di lavoro potrebbero svolgere tutte le loro attività fuori dal luogo di lavoro. A questi si aggiungono 1,6 milioni di smart worker “ibridi” (il 7% degli occupati), che potrebbero alternare momenti di lavoro da remoto e in sede a seconda dell’esigenza. Il lavoro a distanza che l’Italia ha scoperto in massa durante l’emergenza Covid19 ha davvero un grande potenziale di sviluppo per tante professioni che hanno competenze e mansioni idonee, ma che prima del lockdown facevano smart working solo in minima parte, come professionisti ad alta specializzazione, dirigenti in genere, ma anche tecnici, impiegati, operai, addetti ai servizi.

L’emergenza Covid-19 ha effettivamente comportato un balzo in avanti del lavoro svolto da casa, passato, sulla base dell’Indagine Istat sulle Forze di lavoro, da 1,5 milioni di lavoratori nel primo trimestre 2020 a 4,1 milioni nel secondo trimestre, meno comunque del potenziale. E durante i lockdown troppi sono stati gettati nell’esperienza di remote working impreparati: alle condizioni attuali, appaiono effettivamente in grado di operare in maniera “intelligente” non più di 3 milioni di lavoratori, secondo un’analisi di sensitività di Randstad Research. Lo stesso vale per lo studio a distanza: potenzialmente coinvolge tutti i 900.000 insegnanti e 9 milioni di studenti dalla scuola dell’infanzia all’università, a cui si aggiungono 34 milioni di lavoratori attivi che potrebbero fare formazione continua online, ma può definirsi davvero studio “intelligente” solo per una minoranza di studenti e per un numero irrisorio di partecipanti alla formazione continua.

Una sfida – quella di rendere il lavoro e lo studio realmente “smart” – che l’Italia deve affrontare al più presto, con la consapevolezza che il futuro del lavoro sarà necessariamente “blended” tra attività a distanza e in presenza grazie al digitale. Integrarle al meglio può aumentare la produttività del lavoro di oltre il 25%, grazie a un maggior tempo ad attività a valore aggiunto e più importanza ai servizi personalizzati, migliorando nel contempo del clima di lavoro e rapporti con terzi. E un approccio integrato nello Smart Learning, che combini presenza e distanza, potrebbe far recuperare ritardi nella scuola, favorire percorsi di crescita personalizzati, sviluppare l’interazione tra gli studenti. Con un’avvertenza: le competenze indispensabili da sviluppare per fare smart working sono prima di tutto quelle di “literacy” - capire testi in maniera critica, interpretare, essere creativi e costruttivi, avere un’intelligenza relazionale ed organizzativa - oltre a competenze tecnico-scientifiche.

Sono alcuni risultati dall’indagine “Lavoro e studio ‘intelligenti’: la trasformazione possibile” realizzata da Randstad Research, il centro di ricerca del Gruppo Randstad dedicato al lavoro del futuro, che ha analizzato la situazione di smart working e smart learning in Italia dopo il Covid19.

«Il futuro dello studio e del lavoro sarà ‘integrato’, un combinato di attività svolte a distanza con supporti digitali e con piena flessibilità di orario e di altre in presenza che richiedono condivisione e interazione tra persone – dice Daniele Fano, coordinatore del comitato scientifico del Randstad Research -. Troppi lavoratori e studenti negli scorsi mesi sono stati gettati nell’esperienza a distanza impreparati, ma è urgente pensare al futuro superando poco utili contrapposizioni tra ‘smart sì’ o ‘smart no’, a favore di logiche di integrazione delle attività. Il potenziale dello sviluppo dello smart working e dello smart learning, sia in forma estensiva, ma ancor più in forma ibrida, è molto grande».

«È necessario che imprenditori, dirigenti e responsabili HR guidino i processi innovativi, i comportamenti e gli investimenti verso una nuova integrazione tra lavoro in sede e da remoto con un’attenzione all’efficacia-efficienza dei processi e anche alla qualità della vita – afferma Alessandro Ramazza, Direttore del Randstad Research –. Servono nuove funzioni e qualifiche, ma anche la normativa deve fare la sua parte, regolando nel modo corretto lo smart working dopo la procedura semplificata d’emergenza».

Professioni e smart working. Solo una minoranza di professioni ha caratteristiche coerenti con lunghi periodi di lavoro da remoto, altre possono svolgerlo in parte, altre mai. Nel complesso, stando ai dati Istat prima dell’emergenza, a fare smart working in Italia era soltanto l’8% della popolazione totale di occupati, a fronte del bacino possibile stimato del 27%, evidenziando un grande potenziale inespresso. In particolare, facevano smart working dirigenti e professioni ad elevata specializzazione. Ma tra i 6,4 milioni di possibili smart workers estensivi, ce sono molte altre: le prime 4 per numerosità sono costituite da 850mila addetti agli affari generali, 397mila contabili, 286mila professori di scuola secondaria superiore e 283mila professori di scuola primaria, 208mila procuratori legali e avvocati. E tra gli 1,6 milioni di potenziali smart workers “ibridi” ci sono soprattutto agenti di commercio (185mila), tecnici delle costruzioni (165mila), specialisti nell’educazione ai disabili (135mila), tecnici esperti in applicazioni (115mila) e tecnici della gestione finanziaria (111mila), ma anche interpreti e traduttori, giornalisti, organizzatori di fiere e convegni. Rimangono esclusi da queste categorie gli occupati che svolgono attività con prossimità fisica elevata o che non utilizzano strumenti digitali.

Le competenze per lo Smart Working. Sono le competenze teoriche-astratte, più che quelle tecnico-scientifiche a correlarsi maggiormente con la possibilità di una professione di lavorare da casa. Lo evidenzia un’analisi logit compiuta da Randstad Research da cui emerge, su tutte, l’importanza della literacy, l’insieme delle competenze associate alla lettura, alla scrittura, alla comprensione di testi e all’espressione orale: capire in maniera critica, interpretare, avere un’intelligenza relazionale ed organizzativa sono componenti fondamentali per un corretto lavoro smart. L’effetto delle competenze informatiche - che hanno una diffusione un po’ più trasversale - è inferiore di sei volte a quello della literacy sulla probabilità di lavorare in smart working. Analizzando le incidenze del lavoro in smart working per profilo professionale e l’impatto delle competenze sulla probabilità di lavorare da casa, emerge che questa sarà più alta in particolare per professioni ad alta specializzazione (91,3% di probabilità di lavorare da casa), dirigenti (83,7%), tecnici (69,9%), impiegati (25,5%), operai addetti alle macchine (16,5%), operai non qualificati (12,1%), professioni dei servizi (11.5%), operai specializzati (10,5%).

La normativa. La normativa semplificata dello smart working introdotta nei mesi di lockdown, con la possibilità di svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza di accordi individuali e con il diritto temporaneo per alcune categorie (immunodepressi, disabili o familiari), ha permesso di ampliarne la platea, ma ha anche comportato l’allontanamento dallo spirito originario, in favore della tutela della salute pubblica. Terminata la fase emergenziale, bisognerà valutare se necessaria una revisione della disciplina. Per un riassetto organizzativo e regolatorio sarà necessario considerare innanzitutto che lo smart working prevede soprattutto un’organizzazione diversa del lavoro e una valutazione basata sui risultati, anziché tempo e presenza. E dovrà considerare anche tematiche come il diritto alla disconnessione, la tutela della salute e della sicurezza, il diritto alla privacy e alla riservatezza, le tutele contro i rischi da isolamento dei lavoratori.

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