martedì 5 maggio 2020
Fausto Boni, presidente di Vc Hub, che associa tutti i maggiori fondi di venture capital italiani e startup partecipate: «Esclusi dai decreti, il sistema rischia l'estinzione»
Fausto Boni, presidente di Vc Hub

Fausto Boni, presidente di Vc Hub - Vc Hub

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Gli interventi del governo a sostegno dell’economia italiana, per ora, hanno del tutto ignorato la realtà delle startup. Una dimenticanza per certi aspetti paradossale, se si pensa che molti dei servizi che in queste settimane di confinamento hanno permesso di andare avanti con il lavoro, l’insegnamento scolastico e la vita famigliare sono offerti da aziende ancora in fase di startup, spesso anche italiane. Anche Bending Spoon, l’azienda scelta per sviluppare l’app Immuni, è una startup italiana. Ora però queste realtà hanno bisogno di aiuto. «In assenza di interventi urgenti, riteniamo che l’intero settore sia a rischio di estinzione, e con essi miliardi di investimenti in ricerca già sostenuti, brevetti in settori chiave e 120mila posti di lavoro altamente qualificati tra diretti e indiretti» ha avvertito in audizione alla Camera lunedì scorso Fausto Boni, presidente di Vc Hub, associazione fondata l’anno scorso che rappresenta venti gestori di fondi di venture capital con oltre un miliardo di euro in gestione e sessanta startup italiane a loro legate.

Davvero il sistema delle startup italiane rischia l’estinzione?

Stiamo soffrendo molto, perché chiaramente abbiamo un tessuto di aziende partecipate che sono in avviamento e quindi sono ancora fragili. La situazione non è la stessa per tutte, ci sono eccezioni in positivo, alcune startup hanno anche visto salire i ricavi in questa fase di crisi. Ma il fatto che ci sia una prospettiva positiva nel medio–lungo termine non elimina i problemi di cassa di breve termine, che dipendono dalla disponibilità di risorse da parte degli investitori. Le startup sono aziende giovani, non hanno riserve di cassa cumulate in periodi positivi, devono sempre essere rifinanziate. In questo momento la paura prevale rispetto alla fiducia.

Che modifiche servirebbero al decreto Liquidità?

Ci sono diversi problemi. Il primo è che tutto il dl Liquidità si basa sul credito bancario, e le banche giustamente usano i loro tradizionali metodi di valutazione. Quei metodi non si adattano a valutare aziende come le nostre, che si finanziano tradizionalmente con i soldi degli investitori, non attraverso il canale bancario. Poi chiediamo che nei casi delle startup non vengano previste quelle eccezioni negative che impediscono l’accesso alle garanzie, ad esempio quelle che escludono le aziende “in crisi”: le startup sono sempre in perdita, finché non arriva il breakeven… Queste sono le misure principali, abbiamo presentato un pacchetto di misure che in tutto costerebbe 500 milioni di euro, non una cifra enorme.

State dialogando con le banche per trovare una soluzione?

Sì, abbiamo avviato un dialogo con l’Associazione bancaria italiana. Il dl Liquidità prevede garanzie al 100% per le aziende più piccole e al 90% per quelle di dimensioni maggiori. Noi, come investitori, in questi casi per le nostre startup proponiamo di coprire il 10% di garanzia che “manca”, così che la banca possa utilizzare anche la garanzia pubblica al 90% e sia coperta al 100%. Ci sembra che da parte dell’Abi ci sia una certa disponibilità a discuterne. Il problema, per la banca, è la tutela: evitare il rischio di essere accusata di avere gestito male le risorse pubbliche per avere fatto credito alle startup i cui business plan non hanno funzionato.

L’impressione è che l’Italia ancora non abbia capito l’importanza delle startup nel portare innovazione e crescita economica.

La fase di emergenza ha dimostrato come i servizi innovativi inventati da startup siano preziosi per le attività produttive e le famiglie. Speriamo che questo faccia crescere la consapevolezza, Poi però servono piani pluriennali e continuità di intenti tra i governi. I progetti delle startup hanno cicli lunghi, non si può andare “a fisarmonica”. In Paesi come Francia, Spagna o Germania governi diversi hanno saputo dare continuità a una politica pro–startup, l’Italia potrebbe seguire il loro esempio.

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