mercoledì 28 agosto 2013
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La vicenda Imu dimostra, una volta di più, quanto i nostri politici siano "sensibili" agli interessi degli elettori sul tema tassazione delle case, in un Paese in cui il 78% è proprietario di un’abitazione. Ma anche, al tempo stesso, quanto sia proprio questo intreccio di "convenienze" a rendere difficile modifiche profonde al Fisco immobiliare, inclusa quindi l’introduzione della Service tax.Prendiamo il caso delle abitazioni "di lusso". Il Pd, con in testa il vice-ministro Stefano Fassina, sottolinea che «secondo il nostro Catasto sono solo lo 0,2%». In effetti, nelle categorie catastali A/1 (case signorili), A/8 (ville) e A/9 (castelli) rientrano appena 73.680 unità, contro 19 milioni di "prime case" e un totale di 33 milioni e 429mila immobili censiti dal Catasto in Italia. Ma su queste «smettiamola con la demagogia: si è pagato a giugno e si continuerà a pagare, così è sempre stato», ha ricordato persino il combattivo Renato Brunetta, del Pdl. È anche vero che, essendo poche, fruttano un incasso limitato: nel rapporto diffuso dal Tesoro a inizio 2013 si affermava che solo il 6,79% dei proprietari ha versato nel 2012 oltre 600 euro (un 6,8% che, tuttavia, comprende anche case non censite come "di lusso").Il punto è che il Pdl vorrebbe ampliare la soglia delle case esenti. Difficile a realizzarsi in Italia, dove il vero guaio è che la tassazione degli immobili presenta non poche smagliature. Conseguenza della fotografia non veritiera scattata dal Catasto. E solo in minima parte corretta. A partire dal numero stesso degli immobili esistenti e, quindi, tassabili. Negli anni scorsi, grazie a una serie di fotografie aeree, sono state portate alla luce 350mila "case fantasma". Eppure ci sono 1,6 milioni d’immobili che risultano all’anagrafe catastale, ma non figurano nelle dichiarazioni dei redditi degli italiani. È la prova dell’evasione nel settore, presente al di là delle agevolazioni già concesse: il lavoro dell’ex sottosegretario Ceriani (oggi nello staff di Saccomanni) le quantificò nel 2011 in 9,4 miliardi, a fronte di un gettito globale (del settore) di poco superiore ai 41 miliardi.Per fare le cose per bene, insomma, tutto dovrebbe partire da un nuovo Catasto. Il problema è che se ne parla da 35 anni senza cavare un ragno dal buco. La ragione è semplice: per i partiti è materia che scotta come il fuoco. Diventa più comodo, allora, perpetuare iniquità ormai storiche. Acuite da un fatto: il 70% circa delle case è accatastato come A/2 (civile) e A/3 (economica), senza grosse distinzioni. Il che vuol dire che in queste categorie più comuni rientrano anche non poche case che sono invece di lusso, situate nei centri storici delle grandi città, case che finiscono quindi con l’essere esentate. È una questione stranota, ma mai risolta: a Roma, per esempio, succede che una casa a due passi da piazza Navona sia accatastata come A/2 o A/3 e valutata ai fini fiscali un terzo meno di una analoga a Ponte Mammolo, in piena periferia. E il paradosso è che la ben più alta quotazione reale (quella cioè ai valori di mercato) è attestata pure dall’Omi, che è l’osservatorio immobiliare del Catasto stesso. Scarti macroscopici, che risalgono alla storia: avviato nel 1939, il Catasto fu definito solo nel 1962, con l’impegno a procedere a un aggiornamento ogni 10 anni. Così non è stato: ci fu un’unica revisione, a inizio anni 90, in previsione dell’Isi (poi divenuta Ici), poi nel ’97 fu decisa una rivalutazione del 5% uguale per tutte le rendite. Con una legge del 2004 fu consentito ai sindaci di riclassificare le microzone nelle quali il rapporto fra valori di mercato e catastali avesse superato il 35%: in 9 anni lo hanno fatto, però, solo 17 Comuni su oltre 8mila.Ma la transizione dall’Imu (e dalla Tares, la nuova tassa su rifiuti e servizi) è complicata anche da altre considerazioni. A esempio il "balletto" fra vani catastali e metri quadri. Una legge del ’98 (ministro Visco) aveva disposto che la rendita (che è la base su cui si calcolano tutte le tasse immobiliari) fosse calcolata su questi ultimi, e non più sui vani. E la superficie è anche il parametro della Tares, che da questo 2013 doveva subentrare alla ex tassa sui rifiuti. Il risultato? Si è finito su due binari diversi: il Fisco è rimasto ai vani, i Comuni sono passati ai metri quadri con il dato che il Catasto ha recuperato dalle planimetri degli immobili. Ora però anche il Fisco si dovrebbe adeguare, tanto più - altra lacuna - che i vani non sono uguali su tutto il territorio nazionale, spesso nemmeno nella stessa città. Tutti problemi da risolvere in tempi stretti. A meno di non prendersi più tempo per il varo della Service tax, tassa tutta da costruire.
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