mercoledì 29 marzo 2023
A motivare le italiane sono però il desiderio di fare impresa (20,5%) e la possibilità di essere creative (21%). Ci vogliono 150 anni per raggiungere la parità di genere
Sempre più donne vorrebbero diventare imprenditrici

Sempre più donne vorrebbero diventare imprenditrici - Tom Ziora

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In Italia la parità di genere in campo imprenditoriale è ancora un passo indietro rispetto agli altri Paesi europei: c'è chi ha calcolato che servirebbero 150 anni per portare allo stesso livello i lavoratori e le lavoratrici. A confermare uno scenario imprenditoriale europeo non sempre bilanciato tra generi è l'Osservatorio Women in Business condotto da SumUp. Anche se le imprenditrici italiane sono motivate ad aprire un’attività soprattutto per il desiderio di fare impresa (20,5%) e la possibilità di essere creative (21%), mentre nelle altre nazioni sono la voglia di autonomia professionale (54,5% in Francia) e personale (work-life balance al 37,7% nel Regno Unito) i principali fattori motivanti. Tuttavia, in Italia non mancano le difficoltà legate - per oltre metà delle imprenditrici (56,4%) - alla burocrazia, cui si affianca il tema della gestione degli impegni familiari (21,9%). In altri Paesi le problematiche si presentano in una fase più evoluta dell’impresa, per esempio durante la ricerca di personale qualificato (una sfida nel 41,4% dei casi per le imprenditrici in Germania) e le fasi di accesso al capitale (29,2% in Francia). D’altro canto, le imprenditrici italiane mostrano di avere obiettivi molto chiari: tra le priorità hanno la ricerca del work life balance (47,5%) e l’espansione della propria attività nel 44,8% dei casi, rispetto ad esempio al 20,1% delle inglesi. Dall’analisi condotta da SumUp emerge inoltre tra le imprenditrici italiane una mentalità non positiva, oltre a un evidente senso di inadeguatezza. Anche se solo il 13,5% delle imprenditrici indica stereotipi e pregiudizi di genere come un ostacolo alla propria affermazione, è necessario un cambio di cultura nelle donne perché abbiano maggiore fiducia in loro stesse: nel 35,7% dei casi ammettono infatti di essere frenate dalla paura di fallire e oltre 4 donne su 10 percepiscono di avere più difficoltà a far crescere un'impresa rispetto agli uomini. Una visione, questa, che altrove è percepita in misura minore (18% in Francia, 29,4% nel Regno Unito, 29,5% in Germania) e che nel 54,8% dei casi non è condivisa dai colleghi imprenditori in Italia. Un cambio di mentalità che, guardando i dati, potrebbe essere già in corso: il 38% delle imprenditrici tende ad avere una forza lavoro composta tra il 75 e il 100% da donne. La personalità e il carattere sono considerati più rilevanti dell’esperienza e delle qualifiche professionali nelle scelte di assunzione, in particolare quando ad assumere sono le donne. Si tratta di una tendenza presente in tutte le nazioni e più evidente in Germania, dove la personalità è l’elemento principale per l’82% degli imprenditori e delle imprenditrici intervistati. In Italia, nel 61% dei casi si ritiene rilevante la personalità, l’esperienza nel 55% e le qualifiche solo nel 27%. Quando ad assumere sono le donne, la rilevanza della personalità sale al 64%. «C'è una grande potenzialità del femminile nel business e in Italia è ancora in parte inespressa - spiega Umberto Zola, Growth Marketing Lead di SumUp -. I dati ci dimostrano che bisogna lavorare su due fronti. Da un lato burocratico e legislativo, per supportare l’imprenditoria al femminile con progetti dedicati. Dall’altro, sociale: sono ancora troppe le donne che si scontrano con pregiudizi e micro-disuguaglianze. In questo senso, la tecnologia può fungere da abilitatore positivo per fare impresa, offrendo a tutti le stesse possibilità».

Ci vogliono 150 anni per raggiungere la parità di genere

Secondo una ricerca condotta da McKinsey & Company sull’importanza della Diversity & Inclusion nei luoghi di lavoro (Diversity Wins, il terzo report della società che indaga il tema), che ha preso in esame 15 Paesi e oltre 1.000 società, è emerso che le aziende con team Executive che includano più del 30% delle donne al loro interno hanno maggiore probabilità di performare meglio rispetto a organici che hanno pochissime o zero donne. Non solo, è emerso anche che le società che si trovano ai primi posti, sia per parità di genere che per diversità etnica, sono performanti il 12% in più rispetto a tutte le altre presenti nella ricerca. «Sebbene nel corso del tempo – precisa Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group – si siano fatti enormi e innegabili passi in avanti, la strada verso la parità di genere è ancora lunga. Flessibilità, inclusione e attenzione al benessere del personale in azienda sono tra gli elementi imprescindibili per un avanzamento sul tema della gender equality che, paradossalmente, non riguarda solo le donne, bensì afferisce al generale work-life balance dei lavoratori. Così come il telelavoro bilancia esigenze di uomini e donne in un’organizzazione familiare più organica, allo stesso modo è necessario ripensare a una gestione aziendale della genitorialità che comprenda piani strutturati sia di maternity che di paternity welfare, affinché le così dette pari opportunità siano realmente paritarie. Assumere, potenziare e trattenere il talento in azienda è un obiettivo sotteso a ogni impresa, ma ciò è possibile solo se si attuano strategie di inclusione che puntino a valorizzare e potenziare la competenza, la quale non veste panni rosa o blu. Quando esistono diversità e inclusione, si hanno maggiori possibilità di accedere a un ventaglio di talenti più ampio ed eterogeneo. Ciò garantisce anche l’assunzione di risorse con le competenze, l’esperienza e le conoscenze necessarie per creare team ad alte prestazioni, sia in termini di attività sia di innovazione aziendale». Solo la legge non può contribuire a ridurre i divari di genere. Con la 120/2011 (detta anche Golfo-Mosca) è stato introdotto un obbligo normativo nella composizione dei Consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate in Borsa e delle partecipate. La normativa aiuta ad accorciare i 150 anni di distanza che ci separano dalla parità di genere, però la mera applicazione della norma da parte delle aziende rimane sterile se non c’è una cultura di valorizzazione della diversità all’interno delle imprese stesse. A lavorare proprio in ottica di valorizzazione della diversità c’è la certificazione Uni/Pdr 125:2022 che riguarda la parità di genere nel contesto lavorativo. Si tratta di una parità di genere che non ha a che fare solo con le quote rosa, ma valuta a 360 gradi tutti gli elementi aziendali. Se giustamente applicata, la certificazione permette di assumere risorse mettendo al centro il valore della competenza e della diversità del singolo. La prassi di riferimento, infatti, definisce le linee guida per la strutturazione e adozione di un insieme di indicatori prestazionali inerenti le politiche di parità di genere nelle organizzazioni. Inoltre, prevede la misura, la rendicontazione e la valutazione dei dati relativi al genere con l’obiettivo di colmare i gap attualmente esistenti. L'obiettivo è incorporare il nuovo paradigma relativo alla parità di genere nel Dna delle organizzazioni e produrre un cambiamento sostenibile e durevole nel tempo. «Abbiamo ottenuto questa certificazione a gennaio del 2023 – aggiunge Gallesi –. Sono stati così confermati i nostri i valori aziendali: rispetto, fiducia, passione e competenza. Per ottenerla bisogna dimostrare al certificatore di avere un ambiente inclusivo e di rispettare tutte le sfumature esistenti: viviamo, infatti, in una società eterogenea, dove i confini territoriali sono sempre più labili e dove ogni individuo porta con sé caratteristiche uniche. La certificazione non ha nulla a che fare con il mero raggiungimento delle quote rosa: implica, invece, il riconoscimento e la valorizzazione del potenziale e dei risultati della persona. Non dobbiamo cadere nell’errore, infatti, di assumere una donna o di farle fare un avanzamento di carriera semplicemente per adempiere a un obbligo di legge, perché non è in questo modo che si migliora la situazione lavorativa, anzi spesso è addirittura controproducente, per la persona e per l’azienda. Nei nostri scambi quotidiani con candidate e imprese di tutto il territorio, di ogni dimensione e settore, abbiamo spesso sentito storie di assunzioni errate e/o di promozioni avvenute al momento non opportuno che hanno generato tensioni, malumori e, nei casi più seri, addirittura burnout. Occorre un vero e proprio cambio di approccio e di mentalità, a livello generale, perché non possiamo pensare che per cambiare le cose sia sufficiente spuntare la casella donne durante un processo di selezione o all’interno di un organigramma aziendale».

Lo stato di salute dell'imprenditoria femminile

ProntoPro, marketplace di riferimento che mette in contatto domanda e offerta di servizi professionali, ha condotto un’indagine sullo stato di salute dell’imprenditoria femminile in Italia, misurando in un sondaggio l’efficacia percepita delle manovre messe in atto dal governo a supporto della categoria, anche a seguito della pandemia da Covid-19. Il sondaggio è stato eseguito su un campione eterogeneo per categorie di servizi, di circa 500 lavoratrici autonome e titolari di piccole e microimprese su tutto il territorio italiano, in un’età compresa tra i 20 e i 70 anni, considerando sia chi lavora part-time che full-time. Il 76% del campione è titolare di un’impresa individuale, il 17% lavora in imprese composte da 2 a 5 persone, il 5% in aziende con più di 10 persone, il 2% da 6 a 10 persone. Una donna su cinque lavora oltre 40 ore la settimana, il 25% dedica al lavoro tra le 30 e le 40 ore settimanali e il 26% tra le 15 e le 30 ore. Secondo lo spaccato che emerge dal sondaggio, il 39% delle partecipanti lavora per consulenza e servizi professionali (39%) nel campo dell’architettura, dell’edilizia, dei servizi notarili e contabili. Seguono le consulenti per il benessere e la cura della persona in veste di psicologhe o nutrizioniste, ma anche esperte in makeup (19%) e le organizzatrici di eventi, un settore che comprende pasticcere, wedding planner, ma anche fotografe e videomaker (14%). Altro settore particolarmente nutrito è quello delle insegnanti che offrono lezioni di lingue straniere, ripetizioni scolastiche o corsi per qualsiasi tipo di passione, dal canto alla cucina (13%). I servizi per la casa vedono impegnate l’8% delle professioniste nel ruolo di collaboratrici domestiche, ma anche interior designer e decoratrici pittoriche, ultima e folta categoria quella di chi offre servizi per gli animali (6%). Il 57% delle intervistate è laureata, il 42% fa parte della generazione x, quella che va dai 43 ai 57 anni, seguita da un 40% di millennial (27-42 anni), mentre il 13% ha dai 58 ai 70 anni. Solo il 4% ha meno di 27 anni. Il sondaggio mette in evidenza alcuni dati rilevanti soprattutto sulla conoscenza degli incentivi statali che sono stati messi a disposizione negli ultimi tempi, specie dopo la pandemia da Covid-19. Nonostante siano numerosi i bandi sia a livello regionale che nazionale, dedicati nel 2023 all’imprenditoria femminile, solo il 30% delle intervistate afferma di esserne a conoscenza. Le imprese femminili in Italia rappresentano solo il 22% del totale di imprese attive attualmente, e tali bandi mirano proprio ad agevolare le iniziative delle imprenditrici, che tramite le iniziative del Pnrr possono utilizzare contributi a fondo perduto, finanziamenti agevolati o sostegno al credito. Conoscere queste possibilità può ridurre il gender divide e nutrire l’imprenditoria al femminile, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani. Secondo ProntoPro però, la categoria under 27 risulta essere quella meno preparata sui fondi, solo il 14% delle giovani lavoratrici ne ha sentito parlare.

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