sabato 8 febbraio 2014
I Paesi emergenti pagano l’addio al «doping» Fed
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La storia della crisi valutaria dei Paesi emergenti che a fine gennaio ha fatto tremare le Borse di tutto il mondo ha una versione semplice e una più complessa. La versione semplice ha due grandi protagonisti: gli Stati Uniti e la Cina, rispettivamente la prima e la seconda potenza economica globale.La colpa degli Usa è quella di avere riempito il mondo di dollari.Attraverso i quattro piani di "quantitative easing" con cui è riuscita, almeno in parte, a spingere la ripresa americana, la Federal Reserve ha messo in circolazione 3.200 miliardi di dollari freschi. Questa marea di denaro – combinata con la politica dei tassi a zero imitata anche dalla Banca centrale europea – ha fatto crollare i rendimenti dei titoli finanziari più o meno "sicuri" (compresi i nostri Btp) e spinto gli investitori a cercare profitti altrove. Ad esempio portando i soldi nelle cosiddette economie emergenti, che offrivano tassi di crescita e di guadagno inimmaginabili nel Vecchio Occidente. In pochi dall’Asia e dal Sudamerica si sono lamentati molto del fiume di soldi in arrivo. Almeno finché i soldi arrivavano. Lo scorso maggio, quando l’allora presidente della Fed, Ben Bernanke, ha iniziato a parlare di un possibile taglio degli stimoli, la storia è cambiata. Gli investitori hanno iniziato a riportare in Occidente il loro denaro, creando degli squilibri nelle economie emergenti, dove le Banche centrali si sono dovute adoperare per evitare che la fuoriuscita di liquidità creasse degli scompensi sulla loro moneta e sul sistema economico. Gli scossoni dell’estate del 2013 sono stati l’antipasto della crisi di fine gennaio, iniziata dopo che la Fed, a dicembre e poi il mese scorso, ha effettivamente iniziato a ridurre il flusso di denaro messo in circolazione, tagliando gli acquisti mensili di titoli di Stato e immobiliari da 85 a 75 e poi 65 miliardi di dollari al mese.La Cina ha complicato ulteriormente le cose mostrando, da dicembre in avanti, allarmanti segnali di rallentamento. È vero che Pechino continua a segnare tassi di crescita potenti (le ultime stime indicano un Pil in aumento del 7,7% quest’anno) ma comunque sta frenando più del previsto e alcuni indicatori, ad esempio il crollo della produzione industriale, sono particolarmente spaventosi. A questo si aggiunge il pericolo di esplosione della bolla del credito, il cui esito è tuttora del tutto imprevedibile.Con meno dollari dall’America e meno ordini dalla Cina, oltre a incognite politiche (in molti emergenti quest’anno si vota, altri vivono crisi politiche molto profonde) alcune ex nuove forze dell’economia rischiano l’implosione, e su questa paura a fine gennaio si è innescato un effetto panico che ha fatto scappare capitali al ritmo di diversi miliardi di dollari al giorno, costringendo alcune Banche centrali – in particolare quelle di Brasile, India, Argentina e Turchia – a intervenire d’urgenza e per fermare la caduta delle loro monete.Ecco che però occorre andare più a fondo per vedere la versione più complessa di questa storia. Dove è vero che a scatenare la crisi sono stati il "tapering" della Fed e la frenata della Cina, ma ognuno degli emergenti ha vissuto l’arrivo del denaro dall’estero negli anni passati e l’uscita di queste settimane in maniera differente. Sotto l’etichetta "emergenti", infatti, ci sono realtà molto diverse.Gli economisti dell’inglese Capital Economics hanno diviso efficacemente gli emergenti in crisi in cinque gruppi. Il primo è quello dei Paesi gestiti molto male. L’Argentina – dove il governo nemmeno riconosce il tasso reale di inflazione – è il caso più evidente, ma fanno parte del gruppo anche il Venezuela passato da Chavez a Maduro e l’Ucraina del contestatissimo Yanukovich. La crisi valutaria, per questi Paesi, non è altro che la naturale conseguenza di un sistema economico diventato insostenibile. Diversa è la storia di Turchia e Sudafrica ma anche di Tailandia, Indonesia, Cile e Perù. Qui non c’è un problema di cattiva gestione, ma di bolle del credito e impennate dei consumi causate dall’eccesso di investimenti stranieri. I soldi piovuti dall’estero non sono stati arginati da politiche monetarie più severe, e ora che gli investimenti scappano la bolla dei consumi e della bilancia commerciale scoppia. Diverso ancora è il caso europeo di Romania, Bulgaria e Ungheria, nazioni emergenti dove il problema è un sistema bancario è ancora in pesante crisi. Ci sono poi quegli emergenti che hanno problemi strutturali del tutto domestici. Come la già citata bolla del credito cinese, o quella brasiliana, o come il sistema indiano, troppo opaco e complesso per attrarre investimenti dall’estero, o quello russo, fermo a un modello economico molto arretrato, basato solo sulle materie prime.Nell’ultimo gruppo ci sono invece la Polonia e Repubblica Ceca, che negli anni della crisi hanno mostrato una forza invidiabile, il Messico e la Corea del Sud, che sono stati capaci di agganciare la ripresa americana. Sono tutti Paesi che restano forti e con prospettive solide, eppure nel panico generale hanno pagato la nomea di "emergenti". Dopo il terrore di fine gennaio, i mercati stanno gradualmente recuperando razionalità. La caduta delle monete più problematiche (pesos argentina e lira turca) si è fermata dopo svalutazioni pesanti e la crisi degli emergenti si è come presa una pausa. Se ripartirà, prevedono gli analisti, gli investitori dimostreranno di sapere distinguere tra emergenti e "sommergenti".
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