martedì 26 febbraio 2019
Il numero di occupati è tornato ai livelli pre-crisi ma le condizioni sono peggiorate: aumentano i contratti a tempo determinato e part-time. Mentre i giovani sono spesso sovraistruiti e sottopagati
Il lavoro diventa a bassa intensità
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La crisi economica non ha 'spezzato' il mercato del lavoro che ha resistito, in questi anni, tra alti e bassi, ai venti recessivi, anche se rispetto al 2008 si è 'piegato', visto che si è perso quasi un milione di posti di lavoro. L’'azienda Italia' barcolla ma non cade, dunque, e nel 2018 il numero di occupati supera il livello del 2008 per 125mila unità, portando il nostro tasso di occupazione al 58,5% e quello di disoccupazione al 10,6% (0,6 punti in un anno e +3,9 punti rispetto al 2008). Tuttavia nonostante la crescita dell’occupazione, rimane ampia la nostra distanza dalla media di occupati dell’Unione Europea: abbiamo 3,8 milioni di lavoratori in meno. È quanto emerge dal Rapporto sul mercato del lavoro curato dal ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal, che offre un quadro d’insieme ragionato degli ultimi 10 anni. Un decennio che ha visto una profonda trasformazione con una ricomposizione verso il lavoro dipendente, con una crescita dei rapporti a tempo determinato (+735mila) e una notevole espansione degli impieghi a tempo parziale. Nei dieci anni è aumentata la presenza femminile, dei lavoratori 'anziani', di quelli più istruiti, e degli stranieri (soprattutto nei settori alberghi e ristorazione, agricoltura e servizi alle famiglie). Si è inoltre accentuato il dualismo territoriale a sfavore del Mezzogiorno (-262mila occupati a fronte di +376mila nel Centro- Nord).

La vera anomalia però riguarda il capitolo dei giovani. «In questo decennio si è sostanzialmente bloccato l’ascensore sociale» spiega il direttore del Dipartimento di Statistica dell’Istat, Roberto Monducci. «I giovani per anni sono stati in una situazione di estrema penalizzazione, con le politiche previdenziali e pensionistiche che hanno determinato un blocco. Adesso c’è stato un recupero dei primi ingressi, anche se rispetto ad un’offerta qualificata spesso i giovani accettano lavori sottopagati e lontani dal loro percorso formativo e di studi». Un vero e proprio gap tra il potenziale professionale degli under 25 che entrano nel mercato del lavoro e la loro utilizzazione, dovuto a problemi contrattuali ma anche alla sotto-istruzione degli adulti. Anche per questo, registra il rapporto dell’Istat, è triplicato dal 2008 il numero degli italiani che ogni anno lascia la Penisola per cercare lavoro all’estero. Dall’avvio della crisi i laureati e diplomati che hanno lasciato il nostro Paese è aumentato a ritmi notevoli: quasi 115mila persone nel 2017, dai 40mila del 2008, passando per gli 82mila del 2013. Nell’ultimo anno più della metà degli italiani che si sono trasferiti all’estero è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33mila con diploma e 28mila con almeno la laurea. Un capitale umano che si è letteralmente perso e che difficilmente farà rientro nel nostro Paese. «Questo aumento – spiega Monducci – lo si dovrebbe aspettare in periodi recessivi, quando non c’è domanda, ma il fatto che è aumentata l’incidenza di chi va fuori in una situazione di forte recupero del mercato del lavoro vuol dire che non c’è domanda qualificata ».

Per Claudia Fracassi, vice presidente del Cnel «siamo di fronte a un impoverimento complessivo del lavoro e a un mercato del lavoro che varia a livello territoriale e sociale», mentre Andrea Montanino direttore del centro studi di Confindustria si augura che «il Rapporto possa essere un punto di partenza per gli interventi dei policy maker». Intanto sono da registrare anche i dati dell’Osservatorio di Assolavoro, l’Associazione nazionale delle agenzie per il lavoro: da luglio a dicembre del 2018 le persone assunte con un contratto di lavoro in somministrazione, che prevede tutti i diritti e tutte le tutele del lavoro dipendente, sono diminuiti di 39mila unità (8,5%). Il motivo? Per Alessandro Ramazza, presidente di Assolavoro è da ricercare nel «Decreto dignità che sta colpendo i più deboli». «Ci sono – ha detto – quasi 40mila persone che prima lavoravano con le Agenzie per il Lavoro e ora non più. Le causali, i limiti alle proroghe, il maggior costo nel caso di nuovo contratto con lo stesso lavoratore hanno determinato non solo un cambio di persone mantenendo lo stesso contratto di somministrazione ma anche evidentemente il ricorso a contratti meno tutelanti per le stesse mansioni».

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