giovedì 18 maggio 2023
Crescono oltre quota 2,2 milioni in Italia. Retribuzioni migliori, flessibilità e benefit le "armi" a disposizione di datori e manager
Anche i giovani a rischio dimissioni

Anche i giovani a rischio dimissioni - Dusan Petkovic/Shutterstock

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Crescono oltre quota due milioni le dimissioni dal lavoro in Italia. Il fenomeno, esploso dopo il picco della pandemia - in particolare negli Stati Uniti - continua a registrare numeri mai visti prima anche nel nostro Paese. Numeri che viaggiano alla velocità media di più di 180mila al mese nel 2022. Oltre mezzo milione ogni tre mesi. E nonostante una frenata nell'ultima parte dell'anno alle spalle, le dimissioni restano a un livello ben superiore rispetto al pre-Covid. Le motivazioni sono diverse, ma spesso alla base della decisione di lasciare il proprio posto c'è la spinta a cercare opportunità professionali e salariali migliori o un nuovo equilibrio tra vita e lavoro. Nel 2022 sono quasi 2,2 milioni le dimissioni registrate, in base ai dati sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Un numero in aumento del 13,8% rispetto al 2021, quando in totale sono state un milione 930mila. Nel solo quarto trimestre sfiorano quota 530mila: calano del 6,1% (-34mila) nel confronto annuo. Però in termini assoluti rimangono comunque superiori al periodo precedente la crisi Covid: in particolare, nel quarto trimestre 2022 le dimissioni superano di 86mila unità quelle registrate nel quarto trimestre del 2019. Un fenomeno che continua a coinvolgere in misura maggiore gli uomini rispetto alle donne, che più spesso devono già fare i conti con le difficoltà a trovare un impiego e a conciliare famiglia e lavoro. Così come si conferma che, in generale, tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro, la scadenza dei contratti a termine resta la quota decisamente più ampia. Anche i licenziamenti mostrano la stessa tendenza. Nel 2022 risalgono e si attestano a oltre 751mila, in aumento del 30,2% rispetto ai 577mila del 2021, periodo in cui era però in vigore il blocco deciso durante la pandemia. Nel solo quarto trimestre se ne registrano 193mila (-4mila sul quarto del 2021, -2,3%) e anche in questo caso si interrompe il trend di crescita annua cominciato dal secondo trimestre del 2021. In valori assoluti, negli ultimi tre mesi del 2022 il numero di licenziamenti si attesta ancora al di sotto (-46 mila unità) rispetto al livello registrato nel quarto trimestre del 2019, quando risultava pari a 240 mila. L'aumento delle dimissioni volontarie è segno di una maggiore mobilità nel mercato del lavoro e anche di «una maggiore propensione a non accontentarsi. Dopo la pandemia, più spesso si dà spazio a priorità diverse e si punta a cercare un maggiore equilibrio tra vita e lavoro e migliori condizioni sia dal punto di vista retributivo che del riconoscimento della professionalità», sottolinea la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti. I dati rispecchiano «un mercato del lavoro che si muove velocemente. Le persone cercano un lavoro meglio retribuito e che permetta di avere una vita dignitosa, in termini economici e di tempo. Non avremo grandi cali nei prossimi mesi, è una tendenza che si manterrà ancora sostanzialmente stabile», afferma anche la segretaria confederale della Uil Ivana Veronese. Per il segretario confederale della Cisl Giulio Romani, si tratta di un fenomeno che cambia anche «le priorità nella futura regolamentazione del lavoro. Non solo retribuzioni più elevate, ma anche orari più flessibili e meno gravosi, ambienti tecnologicamente più evoluti, lavoro agile, formazione di qualità e prospettive di crescita professionale». E in questo quadro «non più eludibile» è il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, su cui la Cisl ha presentato un disegno di legge di iniziativa popolare.​

Le tendenze per il 2023

Se le “grandi dimissioni” hanno caratterizzato il mercato del lavoro per tutto lo scorso anno, il 2023 sembra essere contrassegnato da un maggiore ottimismo che potrebbe concretizzarsi in quello che è stato definito, il prosperare silenziosamente. Coniato da una psicoterapeuta americana, il termine quiet thriving potrebbe essere descritto come la tendenza a cambiare il proprio approccio al lavoro, cercando nuovi stimoli, migliorando le relazioni professionali con colleghi e manager e dandosi obiettivi condivisi e stimolanti per crescere professionalmente. «A tutti, prima o poi – spiega Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, prima società di ricerca e selezione con un Digital Operating Process – è balenata nella testa l’idea di mollare il proprio posto di lavoro, anche senza avere una valida alternativa già pronta. Ma dobbiamo essere onesti, questa idea non è quasi mai attuabile e questo, a lungo andare, può generare frustrazione e malessere nelle persone che, come accaduto diffusamente nei mesi scorsi, possono mettere in pratica quello che abbiamo imparato a conoscere come quiet quitting e che, tuttavia, non è una strada da percorrere all’infinito. Ed è proprio qui che subentra il quiet thriving, la tendenza a rincorrere quella prosperità silenziosa che ci consente di vivere al meglio le ore che trascorriamo in ufficio». Indipendentemente dal nome che vogliamo dare a questo trend, l’aspetto davvero importante è legato al radicale cambio di approccio che, dopo anni segnati dal lavoro a distanza e da relazioni sociali ridotte al minimo, le persone in ufficio stanno mettendo in atto. Ritrovare l’interesse nei confronti del proprio lavoro e tornare ad impegnarsi giova non soltanto – come è ovvio – alle aziende, ma anche ai lavoratori che vivranno, alla scrivania, ore più serene e, soprattutto, senza ansia e stress eccessivi. «Il primo obiettivo – aggiunge Contardi – è riuscire a sentirsi più coinvolti dal proprio lavoro, identificando, ad esempio, gli aspetti e le attività che si ritengono più soddisfacenti e stimolanti. Il quiet thriving, però, è anche legato alla qualità delle relazioni con manager e colleghi: il miglioramento della soddisfazione, infatti, passa anche attraverso la qualità delle relazioni con le persone con cui si trascorre una parte importante della quotidianità. Promuovere un atteggiamento più propositivo porta inevitabilmente benefici perché, non dimentichiamolo, non c’è niente di più deleterio, anche a livello di business, di un ambiente lavorativo stressante, senza stimoli e ricco di conflitti». Il fenomeno non colpisce solo l'Italia. Ammonta al 3,1%, secondo gli ultimi dati di Eurostat, la percentuale dei posti vacanti in Europa. Un record se pensiamo che nel 2021 era al 2,6% e nel 2019 al 2,2%. Tra i Paesi più colpiti l'Olanda, la Germania e la Francia. «Ci sono - dichiara Silvia Movio, director di Hunters, brand di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale altamente qualificato - parecchie aziende che, negli ultimi tempi, hanno faticato ad attrarre e trattenere talenti e questo rappresenta un grosso problema. Non parliamo di offerte di lavoro fantasma, con stipendi ridicoli e zero tutele nei confronti dei lavoratori, ma di opportunità di carriera spesso davvero molto interessanti. Non dimentichiamo, infatti, che a fine 2022 il boom delle dimissioni volontarie ha toccato il suo picco massimo in Italia, Spagna e Francia. Un fenomeno che, in un modo o nell'altro, deve essere contrastato anche ripensando i modelli organizzativi». Secondo in dati Eurostat, il tasso di posti non coperti avrebbe raggiunto i livelli massimi in Europa. Un fenomeno che sembra destinato a non rallentare, almeno nel breve periodo e che renderebbe il mercato del lavoro sempre più dinamico e che, se gestito correttamente, sposterebbe il potere contrattuale leggermente a favore dei dipendenti che sono sempre più motivati a cambiare lavoro e a scegliere un'azienda più affine ai propri valori o un'occupazione più vicina alle loro ambizioni.

Un fenomeno che colpisce anche i giovani e la risposta delle aziende

Il 44% degli italiani è insoddisfatto riguardo la propria retribuzione. Se il genere di appartenenza è trasversale a questo risultato, l’età, invece, è differenziante: a essere più scontenti sono i giovani della Generazione Z all’inizio del proprio percorso professionale (il 51%). È quanto emerge da una ricerca Changes Unipol elaborata da Ipsos che ha investigato il livello di soddisfazione per l’occupazione e la retribuzione degli italiani, la propensione al cambiamento, i fattori per la scelta di un nuovo lavoro e le aspirazioni in termini di conciliazione. Secondo il rapporto, la retribuzione è il criterio di scelta più rilevante per valutare un’offerta di lavoro: viene infatti indicato dal 50% di coloro che lavorano, staccando nettamente la vicinanza a casa (33%), la stabilità/solidità dell’azienda (30%), e l’allineamento del ruolo offerto con le proprie aspirazioni (29%). Nella ricerca di un nuovo lavoro per gli uomini risulta importante, ma non prioritaria, la possibilità di conciliare il lavoro con le esigenze della vita privata (indicato dal 27%, dato che sale però al 32% tra coloro che stanno cercando lavoro) e l’offerta in termini di smart working (18% tra chi lavora e 20% tra chi sta cercando lavoro); mentre le donne risultano più sensibili ai temi del work-life balance (29% vs il 26% degli uomini, che sono invece più interessati a temi strettamente lavorativi come solidità dell’azienda, motivazione e incentivazione del merito). Tra le generazioni, sono invece i Millennials a dare maggiore peso all’offerta dell’azienda in termini di conciliazione. Tra i lavoratori, il 49% è aperto alla possibilità di cambiare lavoro (in particolare il 14% sta cercando attivamente e il 35% si sta guardando intorno), percentuale che sale al 76% tra coloro che sono attualmente insoddisfatti e che, nel 26% dei casi, sta cercando attivamente un nuovo lavoro. I più attivi sul mercato del lavoro sono i Millennials, che nel 63% dei casi si stanno almeno guardando intorno, mentre quasi fermi appaiono i Boomers, che solo nel 14% dei casi stanno prendendo in considerazione un cambiamento. Tra coloro che lavorano, soltanto uno su tre sarebbe disponibile a trasferirsi all’estero per accettare una proposta di lavoro, quota che sale al 41% tra coloro che stanno cercando attivamente un’occupazione. La propensione a trasferirsi fuori dall’Italia per lavoro cresce al diminuire dell’età: quasi uno su due (46%) tra la Generazione Z si dice disponibile, a fronte di un 18% tra i più anziani Boomers, che invece nel 55% dei casi esclude categoricamente l’opzione estero. Rispetto al genere, i più propensi sono gli uomini rispetto alle donne (35% vs 26%). In caso di cambiamento, i motivi di abbandono dell’attuale posto di lavoro sono nel 36% dei casi l’arrivo di un’offerta di lavoro migliorativa o comunque molto allettante, seguito da una retribuzione non adeguata (31%), ritmi di lavoro troppo pesanti (19%), clima aziendale non soddisfacente o cattivi rapporti interni (17%) e l’esigenza di meglio conciliare lavoro e vita privata (17%). Soltanto il 15% cambierebbe a causa di scarse possibilità di carriera e solo il 14% perché ha una forma contrattuale non soddisfacente. Tra i desiderata legati all’occupazione, la modalità di lavoro preferita è di gran lunga quella ibrida (ufficio + lavoro da remoto), indicata nel 52% dei casi, a fronte di un 33% di lavoratori che vuole invece lavorare al 100% in presenza (dato che sale al 40% per la Generazione X dei 40-50enni). Soltanto il 15% vorrebbe invece idealmente un lavoro al 100% da remoto, percentuale che scende addirittura al 12% tra quanti hanno figli in età scolare o prescolare. Tra chi lavora, il 61% è molto o abbastanza soddisfatto in termini generali della propria occupazione, mentre il 35% esprime insoddisfazione. Gli uomini sono più soddisfatti delle donne (65% vs 56%), così come il 73% di chi ha un contratto a tempo indeterminato è soddisfatto, mentre è meno soddisfatto chi lavora in part-time (46%). La soddisfazione cresce al crescere dell’età, con i Boomers appagati nel 72% dei casi e i Millennials soltanto nel 55% dei casi. Diversamente dal tema della retribuzione, in questo caso è il Nord Italia a spiccare in positivo con una quota del 15% di “molto” soddisfatti in generale per il proprio lavoro, a fronte invece delle città del Centro dove i molto soddisfatti non vanno oltre il 6%. Se soltanto circa un lavoratore su 10 (l'11%) si dichiara “molto” soddisfatto per il suo work-life balance, complessivamente sette su dieci esprimono un giudizio positivo su questo aspetto di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata: una soddisfazione che, nel caso dei Boomers, più vicini al fine carriera, sale addirittura al 77%. Ma soltanto il 10% dei lavoratori accetterebbe di rinunciare subito ad una piccola percentuale della retribuzione per migliorare il proprio work-life balance: una quota che sale al 27% se si include anche chi sarebbe disposto certamente a farlo, ma in futuro. Ancora una volta, sono i Millennials i più aperti a questa ipotesi (il 13% è disposto subito a una rinuncia in termini economici), mentre i più giovani della Generazione Z sono i più propensi in ottica futura (22% dei casi). L’idea della settimana lavorativa corta, a parità di ore complessive e stipendio, infine, è ovviamente molto appealing, visto che quasi un lavoratore su due (il 46%) si dichiara “molto” interessato, soprattutto tra le donne (49%) e i Millennials (50%), percentuale che cresce all`87% se si considerano anche gli “abbastanza” interessati. È evidente che anche per le imprese italiane ripensare i processi d’assunzione e trattenere i talenti è diventata la priorità principale: in che modo è possibile offrire ai dipendenti un’opportunità di sviluppo professionale in modo da farli rimanere più a lungo all'interno di un'organizzazione? Secondo gli esperti del settore una soluzione può essere rappresentata dal ricollocare al proprio interno, con diversi compiti e responsabilità, risorse che avevano intenzione di abbandonare l’azienda per “nuovi lidi” tramite programmi di aggiornamento e formazione. Secondo una ricerca di Workplace Intelligence, il 74% dei dipendenti Millennial e Gen Z è intenzionato a lasciare il posto di lavoro entro la fine dell’anno a causa della mancanza d’opportunità di sviluppo delle proprie competenze e, di conseguenza, della propria carriera professionale. Per il Workplace Learning Report di LinkedIn, i dipendenti a cui viene data la possibilità di un nuovo incarico all’interno dell’organizzazione hanno una probabilità 3,5 volte maggiore di rimanere in azienda. Se, prima della pandemia, solo il 16% dei processi di selezione si concludeva con la riqualificazione di una risorsa interna, a partire dal 2021 la “talent mobility” aziendale è arrivata a pesare quasi il 20% delle selezioni. Si tratta di una piccola crescita (+25%), ma è il segnale che qualcosa sta cambiando. Il desiderio di una maggiore mobilità interna sarà un fattore chiave per favorire la fidelizzazione dei talenti in uno scenario dove, secondo uno studio internazionale ripreso da recruiter.com, il 41% dei dipendenti chiederà quest’anno un cambio di ruolo. Solo uno su tre (33%) si sente incoraggiato a ricoprire nuovi ruoli internamente e solo uno su cinque (21%) si sente di poterne discutere apertamente con i propri manager. Occorre però anche fare attenzione a quelli che potrebbero essere gli aspetti negativi della mobilità interna. C’è la possibilità, infatti, che possa portare a dei malumori interni danneggiando il morale del gruppo: altri dipendenti, infatti, potrebbero sentirsi tagliati fuori dall’azienda per il fatto che sia stato scelto un altro candidato o, peggio ancora, potrebbero pensare che si tratti di favoritismo. Per questo è importante nella dinamica di selezione avere dei criteri di valutazione il più possibile chiari e trasparenti: secondo la ricerca Workest, due aziende su tre (63%) affermano che mantenere i dipendenti è in realtà più difficile che assumerli. I numeri non sono migliori anche in merito al coinvolgimento dei dipendenti nelle aziende, visto che solo 2 su 10 si sentono coinvolti nel proprio lavoro, costando alle organizzazioni circa 500 miliardi di dollari all’anno. Emerge altresì che i lavoratori riportano il timore di non rimanere competitivi all’interno del mercato del lavoro restando all’interno della stessa azienda a lungo: sempre secondo lo studio Workplace Intelligence il 78% dei lavoratori teme di non avere le competenze per fare carriera, il 58% è preoccupato che le proprie competenze siano già obsolete, mentre ben 7 lavoratori su 10 si sentono impreparati ad affrontare il proprio futuro lavorativo.

I consigli degli esperti

Vediamo allora quali sono i sette consigli secondo gli esperti di Zeta Service individua per valorizzare la mobilità interna all’interno delle aziende: è importante notare che questi suggerimenti non sono validi per tutte le organizzazioni, ma occorre adattarli alle esigenze e alla cultura specifiche di ogni azienda.

  1. YOUR PATH – Ogni ruolo all'interno dell'organizzazione dovrebbe avere percorsi chiari verso lo sviluppo futuro delle proprie competenze professionali. I dipendenti dovrebbero essere in grado d’identificare le loro prossime opportunità all'inizio della loro carriera per creare piani di sviluppo con i manager.
  2. ASSESSMENT – È una valutazione del personale sul potenziale presente in azienda sulle competenze e sulle carenze presenti all’interno dell’organizzazione. Questa particolare metodologia può includere interviste con dipendenti e leader aziendali, valutazioni dei processi e dei prodotti e altre attività.
  3. SUCCESS STORY E SUCCESSION PLAN – Riconoscere e premiare i dipendenti che sono riusciti positivamente a ricoprire nuovi ruoli all'interno dell'azienda e condividere le loro storie per ispirare gli altri: evidenziare questi successi permette di creare motivazione creando una cultura inclusiva.
  4. HUMAN & TECH MANAGEMENT – Sfruttare la tecnologia e lo storytelling per facilitare la mobilità interna: utilizzare i processi di job posting interno trasparenti ed efficaci, portali self-service e altri strumenti digitali per aiutare i dipendenti a trovare e candidarsi. Proporre eventi in presenza e momenti informativi rispetto alle nuove posizioni aperte in azienda come Job Café di confronto e momenti di informazione.
  5. PROGRAMMI DI FORMAZIONE E UPSKILLING– Costruire un programma di formazione e sviluppo delle competenze per le risorse presenti in azienda Così sarà possibile migliorare le prestazioni dei dipendenti acquisendo nuove conoscenze e accrescere l’engagement nei confronti dell’organizzazione.
  6. TALENT MOBILITY CULTURE – Comunicare l'importanza della mobilità interna: assicurarsi che i dipendenti siano consapevoli delle opportunità a loro disposizione all'interno dell'azienda e che comprendano i vantaggi (sia finanziari, sia altre tipologie di benefit) per perseguire tali opportunità.
  7. START FROM THE TOP – Occorre assicurarsi che i manager siano consapevoli delle capacità e dell'esperienza dei membri del loro team e cerchino attivamente opportunità per sfruttare quel talento all'interno dell'organizzazione: la spinta verso la mobilità interna deve venire dall'alto.

Flessibilità e politiche inclusive per attrarre e rimotivare

In questo scenario esiste però un aspetto positivo e riguarda tutte quelle iniziative virtuose messe in campo dalle imprese che si sono rese conto dell’importanza di garantire ai propri dipendenti un ambiente di lavoro sano, inclusivo e attento alle loro esigenze. Tra queste c’è Coverflex (https://www.coverflex.com/it), startup portoghese da poco entrata in Italia e operativa nel campo del welfare aziendale, che ha studiato a fondo il mercato del welfare italiano, evidenziando gli aspetti più rilevanti per le risorse di oggi. «In Italia il mercato del welfare è un terreno molto fertile ma largamente non coltivato: basti pensare che, rispetto solo ai buoni pasto, sono poco più di 3 milioni i lavoratori che li utilizzano ogni giorno a fronte di un potenziale di cinque volte maggiore, 16 milioni. Risultato? La maggioranza dei possibili fruitori non ne gode ancora, con conseguenze negative sulla soddisfazione e sul benessere del dipendente, e un sistema welfare potenzialmente molto valido che rischia di rimanere inespresso», dichiara Chiara Bassi, Country Manager per l’Italia di Coverflex. C’è poi la flessibilità geografica, anche nota come workation, southworking o remote working, termini e modalità di lavoro che hanno preso piede negli ultimi tre anni e che concedono ai dipendenti la possibilità di scegliere da dove lavorare. Per alcuni questo si traduce in un ritorno nella propria regione di origine, per altri nella possibilità di essere operativi da qualsiasi parte del mondo, per altri ancora nell’abbracciare la vita da nomade digitale. Coverflex, a tal proposito, lavorando in full remote, permette a talenti da tutto il mondo di entrare nel team e offre budget dedicati al lavoro da remoto (1000€ all’anno da spendere in spazi di co-working, attrezzatura per home office, alloggi e molto altro). «Le ragioni per le quali un lavoratore sceglie un’azienda, o sceglie di abbandonarla, sono cambiate radicalmente e sarebbe un errore continuare ad applicare modelli retributivi e di welfare che funzionavano dieci o venti anni fa e che oggi sono quindi obsoleti e controproducenti. I benefit offerti dall’azienda devono essere percepiti come un vero e proprio valore aggiunto, oltre a rispondere alle effettive necessità del dipendente, che oggi si trova ad affrontare una quotidianità molto diversa dal passato. È molto netta infatti, la presa di distanze dal concetto di “benefit come status” , auto aziendale o ultimo modello di cellulare, verso i quali le nuove generazioni non mostrano più interesse. Un piano di welfare flessibile, di facile utilizzo e che metta al centro il dipendente come individuo e consumatore, prima che come lavoratore, può aiutare le aziende italiane, specialmente le pmi, ad attrarre e trattenere i talenti, che altrimenti saranno invogliati a guardare altrove e cercare soluzioni più in linea con le loro esigenze e i loro valori», conclude Bassi.

Una start up per rimotivare i dipendenti

Secondo l’indagine di Mercer Global Talent Trends 2022, che ha coinvolto 11mila tra dirigenti e Hr manager di aziende italiane ed estere, ben un lavoratore su due non è soddisfatto del proprio impiego: sembra sempre più difficile quindi attrarre e trattenere i talenti. L’insoddisfazione lavorativa dilagante, ha dato vita a un fenomeno, quello di “saltare da un lavoro a un altro”. Un trend, accentuato inevitabilmente da tutto quello che si è succeduto negli ultimi anni a livello globale. Si stima sia un dato che è cresciuto del 30% negli ultimi quattro anni. A trainare questo tipo di tendenze lavorative sembrano essere i più giovani, molto più critici e attenti alla flessibilità, alla ricerca di un maggior equilibrio tra vita professionale e vita privata. Ma anche le generazioni più “senior” stanno iniziando ad avvertire queste esigenze e bisogni, stanchi del sovra-lavoro e a rischio burnout continuo, per la mancanza di condizioni lavorative adeguate. Diventerà quindi una sfida e una priorità quotidiana per le aziende, ma anche per le giovani realtà innovative, trattenere e attrarre talenti, coinvolgendoli nei processi, motivandoli e al contempo creando senso di appartenenza. Per ridurre il turnover sarà necessario adottare principalmente strategie in grado di aumentare l’agilità e puntare su investimenti in programmi di formazione su tematiche all’avanguardia ed innovative, implementando modelli di interazione personalizzata. Per questo è importante che le organizzazioni prendano consapevolezza riguardo a questi nuovi fenomeni e a come contrastarli. Pmi e corporate italiane devono dunque accelerare sotto il punto di vista delle pratiche innovative. Soprattutto per quanto riguarda l’attenta valorizzazione delle persone, misurata dall’adozione di efficaci pratiche di gestione delle risorse umane. «La filosofia vincente si chiama open innovation ovvero la capacità di interazione con l’ecosistema con un’ampia platea di soggetti, come imprese, start up, incubatori, Università e Centri di ricerca italiani e stranieri. Un cambiamento epocale importante che va accompagnato dai giusti investimenti. In Italia stiamo scontando ancora un grosso gap al riguardo. Ma qualcosa si sta muovendo: a parità di talento e creatività vince l’azienda che fa anche piccoli investimenti mirati, in termini di innovazione e formazione, verso le giuste attività per ottenere grandi cambiamenti nel breve-medio termine», affermano Giulia D’Amato e Alessio Boceda, fondatori di Startup Geeks. L’ecosistema italiano si è mosso in ritardo rispetto ad altri grandi Paesi, ma i segnali lasciano presagire finalmente uno spiraglio. Innovare ormai è diventata una necessità, non più una scelta. Startup Geeks, proprio per rispondere a questo bisogno, divenuto ormai impellente, ha fondato la divisione Startup Geeks Innovation, con l’obiettivo di fornire uno strumento in più per tutte quelle organizzazioni che vogliono formare i propri collaboratori sui temi dell’innovazione e dell’imprenditoria. Nel primo anno di attività, ha sviluppato percorsi e programmi di innovazione, di formazione e servizi dedicati ad aziende, scuole, Università e pubblica amministrazione. Supportando un totale di oltre 681 start up ed erogando più di 18mila ore di servizi. Collaborando con realtà del calibro di Italdesign, Eni, Elis, Ntt Data, Sisal e Credem. E tra gli altri Acea, Aws, Bto, Cirfood, Edison, EY, Invitalia, Regione Lombardia, TikTok, 24Ore Business School. Tutte queste organizzazioni hanno cercato innovazione e valorizzato talenti, da manager navigati fino ai neo assunti, dando vita a nuovi progetti innovativi, stringendo partnership, aprendosi al cambiamento. Per fronteggiare l’evoluzione di questa nuova epoca, in cui sono cresciute le esigenze ma anche le nuove possibilità, le aziende più lungimiranti, non possono più sottrarsi a programmi di aggiornamento che hanno l'obiettivo di far sviluppare al dipendente nuove competenze nello stesso campo di lavoro. E di veicolare l’ imprenditorialità interna, sbloccando il potenziale delle persone rendendole in grado di innovare e mettersi in gioco. Evitando che esse rimangono in azienda e si limitino a fare il minimo indispensabile, creando nuovi prodotti o servizi all'interno e adottando metodologie di lavoro che migliorano ed efficientano i processi già esistenti. Sbloccare il potenziale, a volte sommerso, può determinare la sopravvivenza e l’evoluzione dell’organizzazione stessa. La necessità di innovare ha determinato la consapevolezza, che solo aprendosi maggiormente verso l’esterno, ad esempio attraverso l’open innovation, e verso l’interno, cioè verso i propri dipendenti, può rappresentare solo che un vantaggio. L’imprenditorialità interna, fa in modo che le persone aspirino ad abbracciare con maggior slancio nuove iniziative e progetti. Potendo creare idee dall’interno, si sentono maggiormente coinvolte e motivate nello sviluppo di business ad alto valore e impatto, diventando driver di innovazione per l’organizzazione stessa in cui operano. Rispondendo con maggiore flessibilità ai cambiamenti, rafforzando la capacità di fare squadra e costruire network. Secondo i dati del White Paper di Twenix, l’Italia è prima in Europa per numero di lavoratori che soffrono di “disaffezione professionale”, cioè quell’atteggiamento che fa sì che un collaboratore pur essendo ancora tecnicamente al lavoro, se ne sente staccato per un senso di frustrazione e mancanza di motivazione e coinvolgimento. Si potrebbe tradurre anche con “dimissioni silenziose”, ma dietro le numerose interpretazioni dell’espressione, si nasconde in realtà un fenomeno noto: un sempre più diffuso senso di frustrazione correlato al lavoro, già messo in luce dalle dimissioni di massa verificatesi a partire dal 2021, che induce le aziende e i responsabili Hr a ripensare il modo di attrarre e trattenere i talenti in ufficio. Come? La “remotizzazione” del lavoro e l’avvento del lavoro ibrido hanno però inciso anche sulla socialità all’interno delle organizzazioni. Oggi sempre più aziende percepiscono la necessità di ricostruire un senso di appartenenza nei propri collaboratori, reso molte volte precario a causa dello spopolamento degli uffici e delle relazioni tra colleghi sempre più mediate da messaggi o videocall. Per farlo occorre ricercare nuove dinamiche di interazione sociale, sia a distanza che in presenza: come la progettazione di eventi aziendali ed esperienze di team building. E proprio in questo contesto, per rivoluzionare il settore dell’organizzazione di eventi aziendali nasce Kampaay, start up nata a Milano nel 2019. Anche se l’idea si sviluppa qualche anno prima tra i banchi universitari del Politecnico di Milano dall’ingegno ed intuizione di quattro ingegneri: Stefano Brigli Bongi, Daniele Arduini, Marco Alba e Enrico Berto. Kampaay facilita la gestione e l’organizzazione di eventi aziendali, semplici o complessi, attraverso un tool digitale che si allinea alla strategia aziendale. Grazie alla piattaforma, è possibile ottimizzare i processi garantendo: fino al 20% di tempo risparmiato ai manager e ai team che organizzano eventi; più efficienza nella gestione delle risorse; maggiore supporto nel raggiungimento degli obiettivi aziendali come diffondere la cultura, alleggerire la burocrazia e standardizzare attività ripetitive. Grazie a un tool digitale che si integra alla strategia aziendale, è possibile innovare i processi per l’organizzazione degli eventi aziendali (interni, esterni semplici o complessi) garantendo risparmio di tempo, efficienza nella gestione delle risorse e supporto nel raggiungimento dei propri obiettivi. In particolare Kampaay permette agli Hr manager di rendere le attività, legate agli eventi, strategiche per il consolidamento della cultura aziendale. Attraverso la piattaforma, i responsabili Hr abilitano ogni manager all'interno dell'azienda a organizzare autonomamente attività ed esperienze di consolidamento dei team. Allo stesso tempo controllano i principali parametri per il successo dell'iniziativa come le tipologie di attività svolte, la frequenza, il numero di partecipanti, il budget utilizzato, la capacità di spesa complessiva. La piattaforma è lo strumento che aggrega tutti i servizi per eventi in un solo portale, dai catering per meeting e conferenze a team building con i colleghi.

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