mercoledì 22 gennaio 2020
La stima dell’Inps conferma come anche nel nostro Paese sia sempre più diffusa 'l’economia dei lavoretti'. Tra unica attività e secondo impiego opera in questo settore circa l’1,6% della popolazione
Riders a Milano in un momento di pausa

Riders a Milano in un momento di pausa - Fotogramma

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Anche nel nostro Paese si sta diffondendo sempre più l’economia dei lavoretti o gig economy. È ancora difficile avere dei numeri precisi su questo fenomeno. I gig worker in Italia sarebbero circa l’1,6% della popolazione in età lavorativa, quindi 590mila. La stima è dell’Inps ed è contenuta in un documento depositato nelle commissioni Lavoro e Industria al Senato. In 137mila (0,37%) dichiarano di essere gig worker: a tutti gli effetti è la loro unica attività lavorativa; una quota svolge l’attività come un secondo lavoro (0,92%, 342mi-la), infine una percentuale non trascurabile, pur dichiarandosi disoccupata, allo stesso tempo dice di avere svolto qualche lavoretto (0,30%, 110mila). Sempre secondo i dati Inps, una parte superiore al 70% è impegnata in lavori che non richiedono 'strumenti' particolari per essere portati a termine (bicicletta, scooter, autoveicoli, immobili).

Per quanto riguarda il numero di ore lavorate emerge una polarizzazione: da una parte circa il 50% lavora meno di cinque ore a settimana; dall’altra, per coloro che hanno un solo lavoro, circa il 25% lavora più di 30 ore a settimana. Mentre il salario orario mediano è di 8 euro, sebbene il 50% di questi lavoratori guadagni meno del salario minimo, e in alcuni casi – sottolinea l’Inps – i salari orari dichiarati ammontano a 1-2 euro. «La gig economy – spiega Michele Faioli, professore associato di Diritto del lavoro all’Università Cattolica di Milano e consigliere del Cnel – è una forma di mismatching tra domanda e offerta. Non è facile calcolare i gig worker. In Italia, secondo un’indagine della Fondazione De Benedetti sarebbero 700mila. Per 150mila è l’unica fonte di reddito. Ci sono opportunità proposte mediante piattaforma digitale che consentono una certa conoscibilità del mercato del lavoro e, dunque, maggiori occasioni di accesso. La cosa, spesso, si combina con esigenze personali di flessibilità e, in altre circostanze, purtroppo, si declina con forme di precarietà, anche esistenziali». I lavoratori in generale e i precari, a livello nazionale ed europeo, «devono essere al centro delle azioni e anche delle proposte politiche di un sindacato che sappia e voglia collocarsi con efficacia nella contemporaneità. Non possiamo trincerarci dietro un giudizio negativo della tecnologia e della digitalizzazione: dobbiamo chiedere e ottenere protezione sociale, certezza retributiva e previdenziale». Così la segretaria confederale della Uil, Ivana Veronese, in occasione della conferenza finale del progetto Don’t Gig up! Estendere la protezione sociale ai lavoratori della Gig economy, ieri al Cnel, in cui sono state discusse con esperti internazionali 13 proposte politiche per contrastare l’abuso dei contratti atipici, promuovere l’attività sindacale, migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni dei lavoratori delle piattaforme digitali. Il progetto, cofinanziato dalla Commissione Europea, è stato realizzato da una rete di centri di ricerca e sindacati da Italia, Francia, Germania, Polonia, Spagna e Svezia. Per quanto concerne il nostro Paese sono state analizzate la Carta di Bologna, il contratto della logistica, che ha disegnato regole per i rider nell’ambito del lavoro subordinato, e le attività di Networkers, il coordinamento dei lavoratori su piattaforme digitali del sindacato Uiltucs.

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