giovedì 23 marzo 2017
Se in Italia è così difficile diventare adulti prima dei 40 anni, spiegano i ricercatori della Fondazione Bruno Visentini, è perché la società è costruita su misura per la generazione dei 60-70enni.
Il lancio dell'Old Age Coaster Pass del Thorpe Park Resort, nel Regno Unito. (Taylor Herring via Flickr https://flic.kr/p/Kvm3Pc)

Il lancio dell'Old Age Coaster Pass del Thorpe Park Resort, nel Regno Unito. (Taylor Herring via Flickr https://flic.kr/p/Kvm3Pc)

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Nell’ottobre del 2007 Tommaso Padoa Schioppa, allora ministro del Tesoro, con un’infelice battuta durante un’audizione al Senato spiegò che una delle misure della Finanziaria serviva a «mandare i “bamboccioni” fuori di casa». Dieci anni dopo quei “bamboccioni” sono invecchiati e intanto ne sono arrivati altri. Molti, comunque, sono ancora a casa. Il fatto è che molto spesso non è colpa loro.

I ricercatori della Fondazione Bruno Visentini assieme all’associazione ClubdiLatina nel 2015 hanno elaborato un “Indice di Divario Generazionale”, un indicatore che attraverso parametri come il reddito, la ricchezza, i prezzi degli immobili, le infrastrutture fisiche e digitali e l’educazione misura gli ostacoli economici e sociali che impediscono a un giovane di raggiungere una sua indipendenza e quindi diventare adulto, centrando l’obiettivo minimo di un lavoro sufficientemente reddizio, l’acquisto di un’abitazione e una vita autonoma dalla famiglia di provenienza. Fatto 100 il divario intergenerazionale del 2004, nel 2016 l’indicatore è già salito oltre quota 150 e nel 2030, senza correzioni drastiche, raggiungerà i 300 punti. Significa che se un giovane di 24 anni nel 2004 avesse impiegato 10 anni per acquisire una sua indipendenza, lo stesso giovane nel 2020 impiegherà 17,1 anni a lasciare il suo stato di “bamboccione” e nel 2030 gliene serviranno addirittura 27,7. Cioè diventerà grande dopo i 50 anni.


Una società a misura delle generazioni precedenti

Questo accade, scrivono i ricercatori della Fondazione Visentini con molta schiettezza, per un motivo abbastanza evidente: gli italiani nati dalla fine degli anni ‘70 in poi crescono «in una società costruita e gestita a misura delle generazioni precedenti, che preclude ai giovani anche la visione, la speranza, l’aspettativa di un benessere futuro. Una società “dominata” dai baby boomers che hanno goduto di un’emergente gioventù e oggi approdano, nel complesso, a una confortevole vecchiaia da silver boomers ». I ricercatori non vogliono puntare il dito sulla generazione dei figli del boom economico — che pure, nota lo studio, sono «la prima generazione istruita che, protagonista della mobilità sociale, l’ha poi azzerata, creando una società d’insiders via via più anziana » — ma chiedono di riconoscere che la situazione è questa. E quindi provano a ragionare su misure che possano riequilibrare la sproporzione tra le diverse generazioni, per evitare lo scoppio del conflitto tra giovani e vecchi, anche alla luce dell’obiettivo 10 dell’Agenda 2030 dell’Onu: la riduzione delle diseguaglianze.


Le proposte di equità generazionale

Ad esempio con un’aliquota Irpef che tenga conto dell’età, proposta avanzata in un’intervista al Messaggero come possibile soluzione per il taglio delle tasse sul lavoro da Tommaso Nannicini, consigliere economico dell’ex premier Matteo Renzi. Ma anche creando un fondo a sostegno di misure dedicate ai giovani finanziandolo con un prelievo progressivo di tre anni sugli assegni dei 2 milioni di pensionati che incassano di più. Questi pensionati sarebbero chiamati a sostenere concretamente lo sviluppo e la crescita di 2,3 milioni di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Le stime del centro di ricerca di ricerca Eurofund dicono che ogni Neet costa 14.300 euro all’Italia, per un importo complessivo di quasi 33 miliardi. Tutte misure che rientrano, insieme a molte altre, in un più generale pacchetto per i giovani che la Fondazione Visentini consegna al governo. Con l’obiettivo di evitare che l’Italia finisca per morire di vecchiaia assieme ai suoi baby boomers.

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