giovedì 10 giugno 2021
Il rapporto "Fossil assets, the new subprimes?" mette in evidenza come i finanziamenti al settore siano in continua crescita anche in Europa, con il rischio di una crisi di sistema
Anche le italiane Unicredit e Intesanpaolo hanno molti finanziamenti attivi nel settore dell'energia da fonti fossili

Anche le italiane Unicredit e Intesanpaolo hanno molti finanziamenti attivi nel settore dell'energia da fonti fossili - Ansa

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Fra il 2016 e il 2020, nel quinquennio dopo la firma dell’Accordo di Parigi sul Clima (2015), «le 60 banche mondiali più grandi hanno accordato 3.393 miliardi di euro di finanziamenti alle imprese del settore delle energie fossili». Questo dato chiave è al centro d’un rapporto di respiro internazionale intitolato "Fossil assets, the new subprimes?", che Avvenire ha potuto consultare in anteprima. Curato in Francia da un squadra coordinata da Christian Nicol e guidata dall’economista Gaël Giraud, gesuita francese che è presidente onorario del think tank transalpino Institut Rousseau e dirige a Washington il Center for Environmental Justice della Georgetown University, lo studio sostiene che «finanziare la crisi climatica» significa rischiare d’imboccare la strada verso crisi finanziarie sistemiche paragonabili a quella dei subprimes.

«Contrariamente a quanto suggeriscono la retorica e gli impegni presi, il finanziamento dei combustibili fossili da parte delle banche europee è cresciuto ancora», evidenzia lo studio. Uno scenario che contraddice l’impegno della comunità internazionale per un abbandono progressivo di fonti fossili come petrolio, carbone e gas naturale. Restando agganciate alle fossili, le banche «limitano la loro capacità di finanziare alternative sostenibili». Inoltre, gli stessi istituti si espongono ed espongono il sistema finanziario a «rischi colossali», accumulando «asset che sembrano sicuri secondo i modelli di rischio attuali, ma che sono di fatto molto esposti ai rischi della transizione sul clima, non inclusi in questi modelli». In altri termini, le svalutazioni potenziali di tali attivi legate ai nuovi vincoli e imperativi internazionali potrebbero condurre certi istituti alla bancarotta, con l’innesco di crisi sistemiche.

Lo studio si concentra sul posizionamento delle 11 maggiori banche dell’Eurozona che detenevano nel 2019 circa 532 miliardi di ‘attivi fossili’. Fra loro, le due principali banche italiane, Intesa SanPaolo e Unicredit, i cui ‘attivi fossili’ ammontavano rispettivamente a 34 e 45 miliardi. In testa, il colosso francese Bnp Paribas, con 80 miliardi. Secondo il rapporto, «un forte intervento politico a livello nazionale ed europeo è dunque essenziale e urgente, in modo da interrompere questa ‘tragedia degli orizzonti’ e mettere la finanza finalmente al servizio della transizione ecologica», allineandosi con l’Accordo sul Clima.

In ambito europeo, per prevenire rischi sistemici, sarebbe «necessario» creare una “Banca fossile” da parte della Bce, in modo da «liberare le banche da questo peso»: una svolta politicamente impegnativa che potrebbe rappresentare «l’iniziazione di un’uscita graduale dai combustibili fossili in un equo processo di transizione». Il rapporto ha beneficiato pure dalla collaborazione di 15 Ong europee. In Italia, è stato supportato da Re:Common, Ong per la quale «la ricerca conferma ancora una volta l’assuefazione tossica del settore finanziario privato ai combustibili fossili», come ha dichiarato Simone Ogno, chiedendo che pure le grandi banche italiane «abbandonino vuoti slogan sulla sostenibilità e chiudano definitivamente con l’industria fossile».

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