venerdì 21 gennaio 2011
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Molti osservatori lo avevano previsto, ma non così presto. I nuovi accordi firmati in Fiat per gli stabilimenti di Pomigliano prima, Mirafiori poi e in un prossimo futuro Cassino e Melfi stanno imprimendo una forte accelerazione all’insieme delle relazioni industriali. Tanto da indurre l’associazione delle imprese meccaniche a proporre un nuovo assetto generale, nel quale il contratto aziendale possa essere alternativo a quello nazionale. Il progetto, sostenuto da Confindustria e "ben visto" pure dal governo, ha subito sollevato un coro di critiche e dinieghi. Non solo di Cgil, Cisl e Uil per una volta concordi, ma assai significativamente anche da parte delle altre organizzazioni datoriali. Artigiani e commercianti, infatti, temono che vengano così vanificati i risultati ottenuti con la riforma della contrattazione conclusa nel 2009. Ed è difficile non considerare quantomeno intempestiva l’indicazione di Federmeccanica, a meno di una settimana dal referendum a Torino che ha comunque diviso e segnato il lavoro dipendente. La scelta degli industriali appare insomma dettata più dalla necessità di recuperare in fretta il rapporto associativo con la Fiat che da una reale esigenza di cambiamento immediato, dato che il contratto nazionale dei metalmeccanici scadrà nel 2012 e nel frattempo si stanno scrivendo i capitoli specifici per il segmento dell’Auto.Nel merito, invece, la proposta di Federmeccanica è certo rivoluzionaria per l’Italia ma non originale in sé: la prevalenza del contratto aziendale su quello nazionale (o sul salario minimo fissato per legge) è la norma in diversi Paesi come Francia, Gran Bretagna e Germania. E a questo risultato, in realtà, tendeva la stessa riforma del 2009, seppure in maniera graduale attraverso le deroghe e la garanzia del doppio livello. L’assetto dei contratti non è un dogma, ma il frutto di una convergenza fra interessi, che possono essere composti in diverso modo a seconda soprattutto delle condizioni economiche esterne. E queste in effetti oggi spingono verso contratti "tagliati su misura" delle singole imprese. Nessuno scandalo, perciò, ad aprire una discussione sul nuovo modello. Ma ciò che appare come il deficit più grave, al di là della scelta dei tempi, è l’incapacità del nostro sistema imprenditoriale di immaginare relazioni sindacali più condivise, di aprirsi davvero a una maggiore partecipazione dei lavoratori ai destini e alla gestione dell’azienda, di compiere uno scatto verso una più compiuta democrazia economica. Si lamenta spesso il ritardo del sindacato nel comprendere e reagire ai grandi cambiamenti provocati dalla globalizzazione. Ma non si sottolinea mai come le nostre imprese siano estremamente arretrate nella gestione del personale, nella ricerca del consenso, nella costruzione di legami di appartenenza e di ben-essere dei dipendenti in azienda. I salari sono bassi e mancano politiche che premino il merito e assicurino la formazione continua dei lavoratori. Le iniziative di conciliazione tra famiglia e lavoro sono scarse, i servizi offerti sono limitati quando non inesistenti, la flessibilità appare a senso unico. Per comprendere il ritardo basti pensare che le punte oggi considerate più avanzate, come Luxottica o le imprese che si dotano di asili aziendali, fanno la metà di quanto non provvedesse per i suoi operai la Falck negli anni 60-70. Di nuovi assetti contrattuali, dunque, si può discutere, di alternatività pure. Ma quando gli industriali saranno pronti a mettere sul piatto anzitutto la loro di modernizzazione. Lasciando almeno intravvedere quali benefici i lavoratori potrebbero ricavarne.

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