martedì 19 maggio 2020
Venerdì scade il termine entro cui i creditori privati possono aderire al piano di ristrutturazione del governo per un passivo di oltre 65 miliardi
La sede della Banca centrale d'Argentina a Buenos Aires

La sede della Banca centrale d'Argentina a Buenos Aires

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Novantasei ore. Tanto, anzi tanto poco separa l’Argentina dall’incubo – al momento tecnico – di un nuovo default. Il nono degli ultimi due secoli e il primo, nel mondo, nel pieno della pandemia di Covid. Venerdì è l’ultimo giorno in cui i creditori privati potranno accettare il piano del governo di Alberto Fernández per la ristrutturazione di un debito da oltre 65 miliardi di dollari. La somma in valuta estera rappresenta meno di un quarto del passivo complessivo contratto da Buenos Aires, pari a 320 miliardi di dollari, il più alto dell’America Latina. È, però, la partita più ardua data la riottosità dei fondi di investimento a concedere sconti significativi. La dimostrazione si è avuta l’8 maggio scorso, quando la mancanza di adesioni aveva costretto Fernández a un ulteriore prolungamento. Il presidente non ha mai dato un bilancio dei consensi ottenuti ma, secondo fonti non ufficiali, meno del 20% dei possessori di titoli si era fatta avanti. Nemmeno lo slittamento, però, ha prodotto finora novità di rilievo. Almeno a livello ufficiale. L’offerta originaria, presentata dal ministro dell’Economia argentino, Martín Guzmám il 17 aprile, si basa su tre pilastri. Primo, una moratoria di tre anni per i pagamenti, rimandati al 2023. Secondo, una riduzione moderata – il 5,4% – del capitale e, infine, un drastico taglio degli interessi che, dal 7%, calerebbero al 2,3%. Condizioni giudicate irricevibili dai fondi creditori, in gran parte statunitensi, a partire dal gigante Blackrock, detentore di quote per cinque miliardi.

Buenos Aires – alias il duo Ferández-Guzmán –, però, non molla. Il presidente s’è detto più volte aperto a esaminare contro-offerte che, secondo fonti ben informate, sarebbero oggetto di un negoziato frenetico. Blackrock, in particolare, avrebbe chiesto una riduzione del periodo di moratoria o un aumento dei tassi di interesse dei titoli ristrutturati. Il governo argentino mantiene il riserbo. Non è un segreto, però, che quest’ultimo voglia evitare a tutti i costi un default per non essere tagliato fuori dai mercati finanziari, come accaduto dopo il crac del 2001. D’altra parte, però, Buenos Aires sa di non poter pagare senza provocare il collasso della propria economia, in recessione da tre anni. Il debito, ormai, pesa per l’89,4 per cento sul Pil, ma è «insostenibile». A definirlo così è stato il Fondo monetario internazionale (Fmi), esso stesso creditore dell’Argentina per 44 miliardi di dollari. All’inizio di febbraio, la commissione incaricata di esaminarne la capacità di solvenza si era convinta dell’impossibilità di ripagare il passivo senza attuare una politica di feroce austerità. I cui costi sociali sarebbero stati devastanti. Per questo, il Fmi aveva chiesto «uno sforzo significativo da parte dei creditori privati». Posizione condivisa da numerosi esperti, a partire dal Nobel Joseph Stiglitz. L’irruzione del fattore Covid la puntella ulteriormente. La quarantena imposta dal governo è riuscita a tenere sotto controllo vittime, 374, e contagi, poco più di 8mila. Il costo economico è, però, alto: si prevede una contrazione del Pil del 6,5%. Un eventuale nuovo crac argentino rischia di innescare un effetto domino in America Latina in un momento di incertezza globale. Con conseguenze imprevedibili e pericolose per tutti.

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