domenica 8 maggio 2016
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Mettiamola così: l’umanità sta esaurendo il suo conto in banca, la banca del respiro. «Nel 2011 il nostro budget di CO2, quella che potevamo immettere ancora nell’atmosfera, era di 1.000 Gton (giga tonnellate, un miliardo di tonnellate, ndr). Senza cambiare le regole del gioco, intervenire cioè sulla principale fonte di emissione che è la produzione di energia da carbone, non arriveremo al prossimo secolo». Il cielo, allora, sarà già saturo. Traguardando l’orizzonte dall’ufficio di Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, sembrano solo pensieri di un futuro remoto. L’aria è tersa oltre i vetri e, fino al dodicesimo piano, fischietti e vociare di una manifestazione in corso dietro i vialetti di Metanopoli faticano ad arrampicarsi. Fisico di formazione, Descalzi snocciola con passione schietta i dati sulla lotta al ' climate change'. È un suo pallino, e forse qualcosa di più. Avrà a che fare con la responsabilità indotta dal secondo e meno famoso paradosso di Schrödinger, visto che la maggioranza delle emissioni, circa il 70%, è legata ai consumi energetici: gli esseri viventi pompano organizzazione nel sistema, ma la compensano con il disordine che seminano passando. Così la vita prospera generando entropia ovvero inquinamento. L’umanità, insomma, deve trovare un rimedio. Presto. A partire dai signori dell’energia. «Stiamo attraversando un cambiamento epocale che ci dovrebbe portare verso un futuro low carbon », dice. O saremo soffocati dal disordine che abbiamo seminato. Da amministratore delegato, De Scalzi ha iniziato subito a lavorare con l’Unione europea e pure insieme alle compagnie 'rivali' per tracciare un sentiero che contrasti il surriscaldamento globale. 'Ambiente', nei primissimi minuti dell’incontro mattutino, è già la parola più pronunciata. Per questo si definisce «molto amareggiato» – probabilmente un eufemismo – per quanto accaduto in Basilicata. E ribadisce: «In val D’Agri, al di là delle condotte di alcuni singoli che dovranno essere verificate nel merito, l’impianto rispetta le best practice internazionali e abbiamo tutti i certificati e le autorizzazioni, altrimenti non avremmo investito miliardi; abbiamo operato con correttezza, fatto ricorso contro la chiusura dell’impianto di Viggiano e chiederemo ora un incidente probatorio, ossia di poter verificare in contraddittorio i complessi aspetti tecnici dell’impianto o comunque di rivedere la misura del sequestro. Ribadiamo la massima collaborazione alla magistratura, vogliamo andare fino in fondo e che sia fatta chiarezza. Vorrei sottolineare che gli esiti delle perizie indipendenti che abbiamo promosso non solo ribadiscono la correttezza dell’impianto, ma anche l’assenza di un rischio sanitario e ambientale». Del resto, appena messo piede nella stanza dei bottoni, dopo trent’anni vissuti prevalentemente in Africa per il Gruppo che oggi guida, ha presentato nel luglio di due anni fa un piano per rendere Eni forte anche a prezzi del petrolio bassi. Una sterzata decisa per valorizzare due vocazioni dell’eredità Mattei: Africa e tecnologia. E risolvere anzitutto il dilemma tra equilibrio finanziario a breve termine e crescita a lungo. Contribuendo poi a limitare, riconoscendone esplicitamente la necessità, l’incremento della temperatura entro i 2 gradi centigradi. Come? «Abbiamo ridotto la cosiddetta 'impronta carbonica' attraverso il taglio delle emissioni dirette, la conversione green del downstream e la ricerca nelle rinnovabili – sostiene –. E potenziando il ruolo del gas nei Paesi in via di sviluppo ». Tutto nero su bianco nelle linee strategiche 2014- 2018. Dentro ci sono precise scelte geo-politiche – il ruolo dell’Africa, a cui l’energia viene venduta e non solo estratta – e industriali: puntare su progetti convenzionali, soprattutto gas, rinunciando agli idrocarburi artici, allo shale e alle sabbie bituminose. «La Cop 21 di Parigi è stato un successo, perché ha visto per la prima volta l’impegno di 195 Paesi al mondo. Ma in assenza di obiettivi unici e regole comuni, non riuscirà a impattare significativamente sulla riduzione delle emissioni». Dagli scenari globali al fronte italiano, il colloquio ruota sempre intorno a un tema: «Non possiamo più aspettare: in un sistema energetico in crescita, abbiamo bisogno di fonti competitive e accessibili a tutti per favorire lo sviluppo preservando al contempo l’ambiente». Proprio il tema ambientale è il vulnus del caso Basilicata. Per l’alterazione dei codici di rifiuto sono indagati alcuni manager e responsabili del centro, già sospesi dall’Eni. Nel mirino ci sono an- che le emissioni in atmosfera e le acque di produzione reiniettate a 4.000 metri di profondità. Perché richiedete l’incidente probatorio? Il caso della Basilicata mi ferisce perché è uno sviluppo standard che facciamo anche in altri Paesi, ma che in Italia ha richiesto persino un maggior numero di autorizzazioni e controlli, ministeriali e regionali. Investiamo oltre un miliardo di euro l’anno per la sicurezza e l’ambiente, siamo i primi al mondo e ci viene riconosciuto. Visito personalmente sito per sito. Se quello in Basilicata non andava, lo avremmo già sistemato. Il nostro impegno in materia ambientale è reale e non formale. Il rispetto dei limiti vale anche per le acque di scarico? Nel 2015 una società terza leader mondiale in certificazioni ambientali ha verificato con un lavoro di monitoraggio di 75 giorni la regolarità delle acque che sono reiniettate nel pozzo. Senza che ci fossero i nostri ingegneri a controllare. Esami disponibili anche agli inquirenti che affermano come siamo sotto i limiti previsti. Ma ora, ripeto, chiederemo una nuova perizia di parte terza per stabilire come stanno le cose. Viggiano ripartirà? Lo spero. Nell’ottica di una transizione verso un mix energetico più sostenibile, l’Eni e in generale l’Italia hanno davvero bisogno del petrolio dello Stivale? Senza avere davanti i numeri si può sostenere qualsiasi cosa. E i numeri dicono che l’Italia importa il 90% delle risorse energetiche. Ci sono però le energie rinnovabili, nelle quali il nostro Paese è tra i maggiori produttori al mondo. Nelle rinnovabili ci crediamo. E investiamo. Siamo però consapevoli che da sole non bastano. Hanno bisogno, soprattutto in questa fase di transizione, di un compagno di strada. E non può essere, come è stato finora anche in Europa, il carbone. Altrimenti si vanifica ogni sforzo. Perché non bastano? Per quattro ragioni: lo spazio esteso richiesto, l’intermittenza, il misfit geografico (le aree di produzione adatte sono di solito molto lontane dai centri di consumo, ndr) e la bassa riproducibilità. L’Europa e in particolare la Germania ci hanno investito parecchio. L’Europa, va riconosciuto, è stata la prima a prendere degli impegni onerosi nel contrasto al climate changee l’unica a rilanciarli nel 2014. Ma con una doppia distorsione. A livello globale, gli investimenti in rinnovabili hanno raggiunto nel 2015 la cifra record di 286 miliardi, grazie agli ingenti sussidi dei governi, per coprire solo il 14% della domanda. Gli investimenti in Oil&Gas, circa 500 miliardi, coprono invece il 50% della domanda. Il contributo delle rinnovabili nell’energy mix resta cioè limitato e con un costo forte. Non solo, e veniamo al secondo squilibrio: i sussidi in Europa sono stati scaricati nelle bollette degli utenti, con il risultato di avere un costo dell’energia tre volte più alto. Per compensarlo si è ripreso a bruciare carbone importato a basso costo dagli Usa. Annullando in pratica i benefici delle risorse alternative: l’aumento di 1% del consumo di carbone, cresciuto negli ultimi anni quasi a due cifre, vanifica il 10% della capacità di solare ed eolico installata. Risultato: più dell’80% dell’attuale domanda di energia primaria è coperta da combustibili fossili, un quarto da carbone, che produce il 73% delle emissioni della generazione elettrica oltre a generare molti altri tipi di inquinanti. Le rinnovabili moderne (eolico, solare e geotermico) danno un contributo marginale pari all’1%. Cop 21, l’appuntamento di Parigi sulla sostenibilità, è stato davvero un passo in avanti? Sulla carta c’è stato un grande passo in avanti. La Ue intende ridurre le emissioni del 40% entro il 2030, gli Usa del 27% rispetto al 2005 e la Cina si impegna a raggiungere il picco entro il 2030, che rappresenterebbe un incremento del 433% rispetto al 1990. Questi impegni non sono sufficienti. Anche se venissero rispettati, lo sforzo non basterebbe a salvarci: rispetto al budget complessivo di cui parlavamo all’inizio, il nostro conto in banca, di cui al 2011 ci era rimasto il 35% dall’inizio della Storia, nel 2025 ci resterebbe solo il 16% e nel 2030 avremmo consumato più del 90% delle nostre riserve di aria pulita. Perché il ruolo del carbone non viene messo in discussione e la sua quota si riduce solo al 26%, mentre il gas guadagna appena due punti. Cosa è necessario fare allora? Rendere gli impegni più stringenti. Con regole chiare, policy precise. Scelte politiche comuni per avere tutti un unico riferimento normativo che penalizzi l’uso del carbone, senza creare distorsioni di mercato a scapito della competitività com’è successo in Europa. In pratica correggere il libero mercato. Il libero mercato guarda esclusivamente al profitto di domani. In senso stretto. Bisogna governarlo, correggerne gli squilibri intrinseci, guardando alla sostenibilità del lungo periodo. Serve una Cop 22 per definire le regole comuni vincolanti. Stiamo uccidendo il Pianeta: gli impegni formali non bastano. Dobbiamo rivoluzionare il paradigma di sviluppo fin qui dominante e scegliere senza ambiguità un modello 'low carbon'. Tassando pesantemente il carbone, come ha fatto la gran Bretagna, il Paese del carbone, per di- rottare gli investimenti sulle rinnovabili. Alle quali serve però un compagno di viaggio. E non può che essere il gas, l’unica fonte 'ponte' verso un futuro a energia pulita, perché garantisce continuità a prezzi contenuti e basso impatto ambientale. Eni come si sta muovendo? Noi proponiamo 'il paradigma Africa': gas più investimenti e tecnologie per le rinnovabili laddove ci sono spazi e risorse. Siamo stati la prima oil company a investire in Africa nella generazione elettrica, usando il gas associato che in precedenza veniva disperso, con 4 centrali in Congo e Nigeria, dove viene ormai prodotto rispettivamente il 60 e il 20% dell’elettricità. E ci sono nuovi progetti in Angola e Mozambico. Non c’è un rischio di nuova colonizzazione delle risorse naturali africane? O almeno questi Paesi non possono sentirsi in qualche modo 'derubati'? La nostra scelta, per certi versi antieconomica, è quella di mettere a disposizione l’energia proprio a questi Paesi. In Egitto, dove a Zohr abbiamo trovato da poco uno dei giacimenti offshore di gas più ricchi del mondo, già oggi rigiriamo il 100%. È una scelta che costa: sarebbe più profittevole esportare altrove. Però in questo modo creiamo valore e legame con i Paesi africani, partnership che rendono sostenibile la nostra presenza nel lungo periodo in cambio della rinuncia di un maggior profitto nel breve. In 14 Stati garantiamo il 50% della produzione e contribuiamo alla sostituzione delle biomasse dannose e inquinanti – nell’Africa sub sahariana sono oggi il 90%, soprattutto legna e carbone vegetale bruciati in casa – con gas e solare. Mai pensato di lasciare la Libia? Alla Libia, oggi, Eni fornisce il 100% del gas per generazione elettrica e il 50% per le utenze domestiche. Mai pensato di lasciare, neanche nei momenti più critici. Garantiamo l’energia a tutte le parti in causa, ma soprattutto a tutta la popolazione. Se lasciassimo, faremmo un danno al Paese. Il governo italiano insiste molto sulla necessità di investire in Africa anche in ottica geo-politica, per arginare cioè le migrazioni di carattere economico. È l’unica strada da percorrere. Investire e portare tecnologia in Africa. I muri non servono a nulla: anzi, rischiano di inasprire il fenomeno. L’Italia e l’Europa, che hanno bisogno di diversificare le fonti di approvvigionamento, devono investire e produrre in Africa, dove il gas è vicino. Funziona tuttavia solo se non vai lì unicamente per esportare, ma per creare sviluppo. Eni riconosce esplicitamente, nella sua strategia industriale, la necessità di limitare l’incremento delle temperature mondiali a 2 gradi. In 'casa vostra' che risultati avete ottenuto finora? Con il piano industriale abbiamo ridotto le emissioni del 27%. Entro il 2025 puntiamo a un altro 27% rispetto al 2014, con l’azzeramento del flaring e gli investimenti in gas e rinnovabili. Grazie al contenimento dei costi, al raggiungimento più veloce dei break even nei diversi settori e al primato nella tematica ambientale, con la conversione 'verde' delle attività downstream, continuiamo a generare profitti. E il piano era stato presentato con il barile a oltre 100 dollari. Gli investitori, questa capacità, ce la riconoscono: la strategia presentata nel 2014, basata sulla conversione da conglomerato a compagnia Oil&Gas pienamente integrata ed efficientamento dei costi, ha visto gli obiettivi raggiunti con due anni di anticipo. I sindacati invece, a proposito di razionalizzazioni, sostengono che volete 'svendere' la chimica verde, un patrimonio anche tecnologico. L’ho ripetuto decine di volte, ai sindacati e anche in Parlamento, nel corso di tante audizioni: nessuna svendita. Cerchiamo un partner per rilanciare Versalis. La chimica negli ultimi 10 anni aveva perso 7 miliardi. Servono risorse, da soli non ce la possiamo fare. In tutti gli altri settori, dall’upstreamalla raffinazione, abbiamo joint venture. E servono anche qui. Per di più vengono garantiti i progetti così come sono per cinque anni e i livelli occupazionali per tre. Qualunque sia il partner, deve accettare anche di fare chimica verde insieme a noi. Nella razionalizzazione del settore raffinazione avete chiuso Gela. Abbiamo chiuso Gela ma per convertirla in raffineria verde. E abbiamo appena investito 100 milioni per la raffineria verde di Marghera. In Italia continueremo a investire. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’intervista Caso Basilicata Climate change
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