giovedì 8 dicembre 2022
Otto occupati su dieci scelgono il posto anche sulla base del piano proposto. La Generazione Z non scende a compromessi su stipendio, valori o equilibrio tra lavoro e vita privata
Il welfare può contribuire a migliorare la vita dei lavoratori

Il welfare può contribuire a migliorare la vita dei lavoratori - Archivio

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Otto occupati su dieci scelgono il posto di lavoro anche sulla base del piano di welfare aziendale proposto. È uno dei tanti dati che emerge dalla ricerca Il welfare di domani condotta da Nomisma per l’Osservatorio Cirfood District per delineare una fotografia dello stato attuale del settore che, anche alla luce delle conseguenze del Covid-19 e dello scenario attuale della società, si ritrova oggi a giocare un ruolo ancor più fondamentale all’interno delle imprese italiane. La ricerca, rivolta, da un lato, a un target di 1.000 lavoratori e, dall’altro, agli executive di 150 aziende operanti in diversi settori, in tutta Italia, mette in luce i nuovi bisogni degli intervistati in tema di welfare e la capacità delle aziende di rispondere a tali necessità con azioni e programmi che rispondano alle reali esigenze delle loro persone. Inoltre è aumentata, rispetto al 2019, l’attenzione dei lavoratori verso la propria salute (47%), l’alimentazione (38%) e il tempo da dedicare al supporto dei propri cari (25%). Ciò, di riflesso, ha spinto sempre più persone a considerare utili servizi e strumenti di welfare dedicati alla prevenzione e alla salute (62%), alla conciliazione vita-lavoro (59%) e al sostegno economico (56%) cruciali per rispondere alle nuove necessità. Il 71% dei lavoratori ha dichiarato che l’impresa in cui lavora prevede già dei programmi e servizi di welfare, che includono : buoni spesa (47%), servizi di sanità integrativa (46%), previdenza complementare (36%) e di ristorazione aziendale (31%). Servizi presenti, ma spesso assolutamente perfettibili, visti i molti ambiti di miglioramento segnalati dai lavoratori, volti a far sì che tali servizi rispondano sempre più alle reali esigenze dei dipendenti (70%), con un’adeguata varietà (67%) e copertura territoriale dei beni e servizi proposti (67%) e una maggiore facilità di utilizzo delle piattaforme dedicate (58%). La ricerca evidenzia come, ad oggi, l’offerta di questi servizi dal punto di vista dei lavoratori rappresenti un elemento chiave: otto su dieci, infatti, ritengono fondamentale o importante la presenza di un piano di welfare aziendale nella scelta di un nuovo luogo di lavoro. Al contempo, l’indagine evidenzia come tra i lavoratori che non hanno accesso a piani di welfare aziendale, nove su dieci siano fortemente interessati ad usufruirne. Dal punto di vista delle imprese, la ricerca evidenzia come sia cambiato l’approccio e l’attenzione agli strumenti di welfare, oltre al modo in cui essi vengono percepiti dai responsabili delle risorse umane. Un Hr manager su due dichiara che, rispetto al 2019, è aumentato o molto aumentato l’interesse dei dipendenti a ricevere servizi di welfare aziendale. Oggi, secondo l’indagine, l’83% delle aziende offre già almeno un servizio di welfare aziendale e, in questa direzione, gli executive intervistati ritengono che l’offerta di un piano di welfare aziendale incida nel migliorare la qualità di vita e promuovere il benessere dei dipendenti (87%), favorire la creazione di un buon clima aziendale (81%), potenziare l’immagine e la reputazione aziendale (78%) e offrire ai dipendenti servizi per la salute e la prevenzione (69%). Dalla ricerca emerge, inoltre, la necessità, da parte degli executive, di affidarsi a provider e soggetti erogatori di servizi di welfare che abbiano un approccio più consulenziale (64%) per la costruzione di piani basati sulle reali esigenze dei propri dipendenti. Tra i servizi di welfare più diffusi troviamo quelli relativi alla gestione della pausa pranzo, offerta dal 72% delle aziende coinvolte nell’indagine, perché migliora la qualità di vita e il benessere dei dipendenti (71%), nonché il clima aziendale e il rapporto con i dipendenti (64%), oltre ad essere uno strumento che consente di ottimizzare i tempi.

Cresce la spesa in welfare prevista nel 2022, le sei priorità d'azione

Secondo le stime del Think Tank “Welfare, Italia”, l’aumento generalizzato della spesa in welfare indotto dalla pandemia continua anche nel post Covid-19: dopo la crescita di 46 miliardi di euro nel 2020, tra il 2021 e il 2022 la spesa nei tre pilastri “tradizionali” (Sanità, Politiche Sociali, Previdenza) e nell’Istruzione è aumentata di ulteriori 22 miliardi, di cui 18 solo nel 2022, raggiungendo i 615 miliardi di euro. In termini relativi, la previdenza continua ad assorbire circa la metà della spesa in welfare (48,4%), seguita dalla sanità (21,8%), dalle politiche sociali (18,2%) e dall’istruzione (11,6%). Mercato del lavoro e dinamiche demografiche sono le due funzioni chiave di un sistema di welfare. Dopo aver approfondito il tema del lavoro nell’edizione passata, nel 2022 il Think Tank “Welfare, Italia” si è focalizzato sull’ambito demografico, analizzandone le dinamiche, le cause, gli impatti, e le possibili strategie d’azione. Nel 2021, per la prima volta nella storia italiana, il numero di nati è sceso sotto la soglia dei 400mila (attestandosi a 399mila), contribuendo a un saldo naturale negativo di 214mila persone. Già nel 2020, soprattutto a causa della pandemia da Covid-19, si era registrato un saldo naturale negativo di 335mila persone, il peggiore dal 1918 (anno dell’epidemia di “spagnola”). Il riflesso di questo andamento è il tasso di natalità, che in Italia è pari a 6,8 nati per mille abitanti, il valore più basso nell’intera Unione Europea, con un divario di 2,3 nati dalla media europea (9,1 nati) e di 4,8 dal Paese best performer (l’Irlanda, con 11,6). Di conseguenza, l’Italia registra il tasso di dipendenza degli anziani più alto nell’Ue-27 (40,1 over-65 per 100 persone nella fascia 20-64 anni), dietro solo alla Finlandia (40,3%) e con un valore superiore alla media europea (35,4%) di 4,7 punti percentuali. Sul fronte migratorio, tra 2011 e 2020, il saldo è stato positivo e pari a 1,7 milioni di persone (il 2,9% della popolazione italiana al 2020). Tuttavia, nello stesso periodo, per entrambe le sue componenti - emigrazione ed immigrazione - l’Italia riporta dei trend rispettivamente in aumento e in calo: il numero di emigrati è aumentato del +93,9% (7° variazione a livello Ue), mentre il numero di immigrati si è ridotto del -35,8% (la peggiore variazione in Ue). Un aspetto critico riguarda il Capitale Umano perso (e non recuperato) dal Paese: dei 121mila italiani che hanno lasciato l’Italia nel 2020, il 26% (circa 31mila persone) possedeva la laurea o un titolo di studio superiore e, allo stesso tempo, la percentuale di laureati stranieri nel Paese (13,3%) è la più bassa nell’intera area Ocse (media del 40,8%). “Welfare, Italia” ha stimato che se tutti gli emigrati nel 2020 non tornassero in Italia durante la loro vita lavorativa, il Paese perderebbe circa 147 miliardi di euro, ovvero la somma tra il costo della spesa in istruzione perso, pari a 10,5 miliardi di euro, e i mancati redditi guadagnati dagli emigrati nel corso della loro vita lavorativa all’estero (stimata in circa 35 anni), pari a 136,5 miliardi di euro. Inoltre i risultati del Welfare Italia Index 2022 - l'indicatore sintetico che valuta sia gli aspetti legati alla spesa in welfare sia aspetti legati ai risultati che questa spesa produce - fotografano una netta spaccatura tra Nord, Centro e Sud del Paese nella capacità di risposta del sistema di welfare delle regioni italiane. Si conferma quindi la forte eterogeneità tra i territori del Paese, sia con riferimento al sistema di welfare sia per quanto riguarda gli impatti del Covid-19 e i relativi effetti redistributivi legati a povertà assoluta e disoccupazione. Nel dettaglio, la provincia di Trento si conferma prima in classifica (81,3 punti), seguita da Bolzano (78,7 punti) e dal Friuli-Venezia Giulia (77,4 punti). Il Veneto (70,1), l’ultima regione del Nord, si posiziona davanti a tutte le regioni dell’Italia centrale e meridionale. In particolare, le ultime otto Regioni appartengono tutte all’Italia Meridionale e Insulare e la prima dell’area – ovvero la Sardegna (14esima con 62,8 punti) – dista oltre 18 punti da Trento e precede di circa 12 punti la Calabria, ultima in classifica. In questo quadro, “Welfare, Italia” ha individuato sei priorità d’azione, supportate da specifici indirizzi operativi, che il Paese deve affrontare per contrastare la dinamica demografica negativa del Paese e rendere più sostenibile la spesa in welfare alla luce dell’evoluzione demografica:

1. Integrare il tema della natalità all’interno della tassonomia sociale europea

L’Unione Europea è l’area globale con il più basso tasso di natalità e detiene competenze limitate in ambito sociale per affrontare la questione, ma può fare leva su strumenti che – indirettamente – possono impattare il tema demografico, come la tassonomia sociale (che identificherà le attività economiche socialmente sostenibili, analogamente a quanto fatto sul versante ambientale). La proposta è di introdurre in esplicito, all’interno della tassonomia sociale, un sotto-obiettivo connesso alla natalità, orientando così gli investimenti verso le realtà che forniscono un apporto positivo alla demografia.

2. Promuovere misure finalizzate a sostenere la genitorialità e ad accrescere l’occupazione femminile

Ad oggi l’Italia è penultima nell’Unione Europea per tasso di occupazione femminile e 1° per tasso di part-time involontario (rappresenta la quota di donne che hanno accettato un lavoro part-time in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno). Oltre alle criticità nell’inclusione femminile, vi sono difficoltà specifiche per le famiglie: l’Italia ha infatti un record di spesa per la cura di un figlio a carico: il 27% del reddito familiare serve per accudire i figli vs. 25% di Regno Unito, 15% della Francia e 2% della Germania. Per tutelare donne e famiglie e promuovere la genitorialità, gli interventi da attuare prevedono il rafforzamento strutturale degli strumenti di sostegno alle famiglie e alla natalità (valorizzando anche il Terzo Settore), la trasformazione dei congedi di maternità e paternità in congedi gender neutral, l’adozione di misure a supporto della maternità a 360 gradi (corsi di formazione per l’up-skilling o il re-skilling), l’introduzione di incentivi fiscali per le persone fisiche anche per favorire la previdenza complementare tra le donne e l’adozione di misure rivolte alle imprese, come certificazioni, incentivi e/o meccanismi premiali.

3. Mitigare i flussi migratori in uscita e rendere più efficiente il mercato del lavoro anche per i cittadini stranieri

Oggi il saldo migratorio italiano è caratterizzato dalla fuga di cervelli e da un’immigrazione poco «qualificata». Da un lato, nel 2020 sono emigrati circa 40mila giovani tra i 25 e i 34 anni (1/3 degli emigrati totali) e di questi circa 18mila possiedono almeno la laurea (la quota di laureati sul totale dei giovani emigrati è passata da 38,7% nel 2019 a 45,6% nel 2020), con un costo per emigrato per il Paese tra 939mila euro e 1,5 milioni di euro sulla base del titolo di studio. Dall’altro lato, solo il 6,4% dei permessi di soggiorno rilasciati è per lavoro (vs. 56,9% per motivi famigliari), anche a causa di un mercato del lavoro poco attrattivo: l’Italia è 22° tra i Paesi Ue per tasso di occupazione degli immigrati (57,8%) e solo il 13% degli stranieri in Italia è laureato, il valore più basso tra i Paesi Ocse. “Welfare, Italia” propone di potenziare i centri per l’impiego con l’obiettivo di efficientare e rendere attrattivo il mercato del lavoro nel complesso, tramite la creazione di banche dati nazionali e il tracciamento puntuale di ogni offerta di lavoro formulata, l’integrazione delle agenzie di intermediazione private nella selezione delle offerte e il rafforzamento del matching tra i fabbisogni professionali delle imprese e le competenze, anche tramite specifiche piattaforme digitali.

4. Valorizzare il contributo della componente previdenziale integrativa

L’aumento della spesa previdenziale non potrà essere gestito senza un adeguato contributo del settore privato che, tuttavia, ad oggi risulta sotto-valorizzato: in Italia la partecipazione alle forme di previdenza integrativa è pari al 34,7% dei lavoratori (vs. 55% in Germania e 88% nei Paesi Bassi) e, se si considerano gli individui che nel 2021 hanno versato contributi nei fondi previdenziali, il tasso di partecipazione si ferma al 25,4%. A questo si aggiungono importanti differenze territoriali (dal tasso di partecipazione del 57,5% del Trentino-Alto Adige al 25,2% della Sardegna), di genere (30,9% tra le donne e 37,5% tra gli uomini), ma anche di età (23,9% negli under-35, rispetto al 45,1% nella fascia 55-64 anni). In questa prospettiva, l’indirizzo del Think Tank “Welfare, Italia” si sostanzia lungo tre ambiti, connessi all’ampliamento della previdenza integrativa (con la previsione di una posizione previdenziale integrativa per tutti i nuovi nati), alla maggiore flessibilità della previdenza complementare (portabilità della deducibilità fiscale, anticipazioni straordinarie in caso di emergenze e trasferimento ai figli della posizione maturata) e alla cultura del welfare (attraverso campagne di sensibilizzazione e informazione).

5. Favorire l’allargamento dell’offerta dei servizi di welfare attraverso le soluzioni di welfare contrattuale e aziendale

Al 2021 la spesa sanitaria privata ha raggiunto i 41 miliardi di euro (+7,4% rispetto al 2020), rappresentando il 24,4% della spesa sanitaria totale e l’Italia è il Paese tra i Big-5 europei per spesa out-of-pocket sostenuta dalle famiglie italiane sul totale della spesa sanitaria privata (89,1%). L’indirizzo operativo è quello di promuovere la definizione del perimetro delle prestazioni sanitarie integrative (la cui disciplina è oggi meno sviluppata rispetto ai sistemi integrativi di tipo previdenziale) e un sistema di monitoraggio puntuale delle attività dei fondi sanitari. In questo scenario, il sistema dei fondi sanitari integrativi è caratterizzato da tre grandi «questioni aperte»: la definizione delle prestazioni integrative; l’identificazione di un sistema di monitoraggio puntuale delle attività dei fondi (oggi rimesso a più enti); la raccolta di dati sulle attività dei fondi.

6. Ridefinire il reddito di cittadinanza come strumento di inclusione sociale e potenziare i meccanismi di attivazione e inserimento lavorativo

Il reddito di cittadinanza si è rivelato uno strumento efficace nel contrasto alla povertà, ma permangono degli ambiti di ottimizzazione in termini di “precisione”: il 56% delle persone povere non ha effettivamente accesso al sussidio e un percettore su tre in realtà non è povero. È invece meno efficace il funzionamento della componente relativa all’attivazione e all’inserimento lavorativo, oltre che per la ridotta capacità di presa in carico dei servizi sociali e dei centri per l’impiego, anche per il meccanismo che prevede che tutto il reddito da lavoro aggiuntivo guadagnato sia compensato da una riduzione di pari ammontare del Rdc, lasciando reddito disponibile netto invariato rispetto al caso di assenza di lavoro (disincentivandone la ricerca). Gli indirizzi suggeriti dal Think Tank pertanto raccomandano di valorizzare il ruolo di inclusione sociale (riduzione del requisito dei dieci anni di residenza in Italia, revisione della scala di equivalenza, differenziazione dell’importo del sussidio in base al costo della vita e adeguamento all’inflazione) e di potenziare i meccanismi di attivazione e inserimento lavorativo (revisione degli importi al variare dei redditi da lavoro e vincolo del sussidio alla partecipazione ai percorsi di formazione e attivazione).

Il welfare come leva per attirare lavoratori, la Generazione Z non scende a compromessi

Dall’analisi dei dati emersi dall’ultima edizione dell’Osservatorio Welfare a cura di Edenred, si evince che l’offerta di fringe benefit e di un ampio paniere welfare ha un peso rilevante e rappresenta un importante veicolo di scelta del posto di lavoro, soprattutto per le nuove generazioni. Il 41,6% degli intervistati giudica abbastanza importante e l’11,5% molto l’importante la presenza di un’offerta di benefit come fattore in grado di influenzare la scelta di un’azienda nella ricerca di una professione. Siamo davanti a una valutazione complessivamente positiva che si attesta oltre il 53%. Tuttavia la Generazione Z si aspetta un buon equilibrio tra lavoro e vita privata, uffici di prossimità e un lavoro interessante. Inoltre non è disposta a scendere a compromessi sullo stipendio o sui valori aziendali. È quanto emerge da una ricerca condotta tra più di 1.000 professionisti della Gen Z. Lo studio su abitudini e aspettative professionali dei nati tra il 1997 e il 2012, condotto da Regus, brand parte di IWG - il più grande gruppo mondiale di spazi di lavoro flessibili presente in Italia con i brand Copernico, Spaces, Signature e HQ -, traccia un quadro di ciò che conta per i giovani, utile ai datori di lavoro per capire come attrarre i migliori talenti. La Generazione Z è stata tra le più colpite dai blocchi e dalle restrizioni sociali e professionali a seguito dell’emergenza Covid-19. Dai numeri emerge chiaramente che non è disposta a tornare ai modelli di lavoro precedenti la pandemia. Sono finiti i tempi in cui i giovani si spostavano nelle grandi città cinque giorni alla settimana. Lo studio ha evidenziato che l'85% della Gen Z desidera un ufficio vicino a casa. L’era del pendolarismo sembra essere definitivamente tramontata. Più della metà dei giovani (51%) chiede di poter lavorare da casa, mentre solo un quarto (25%) ha ritiene importante poter contare su un grande ufficio in centro città. Più di un terzo (38%) vorrebbe lavorare con orari flessibili e il 43% dichiara che lascerebbe il lavoro se non offrisse un buon equilibrio tra lavoro e vita privata. La flessibilità è fondamentale per la Gen Z. Tuttavia, per ottenerla non sono disposti a scendere a compromessi con lo stipendio o l’avanzamento di carriera. Lo stipendio si conferma quindi il fattore più importante (73%) per accettare una nuova posizione, seguito dalle opportunità di carriera (54%). Uno stipendio considerato “insufficiente” è indicato come la ragione principale per lasciare il lavoro (53%), così come la mancanza di crescita professionale (41%). Lo studio ha anche rivelato che i dipendenti più giovani non sono disposti ad accontentarsi di un lavoro noioso solo per ricevere lo stipendio. Il 46%, infatti, ha dichiarato che un lavoro interessante è fondamentale per non cercarne uno nuovo, solo lo stipendio e le opportunità di carriera sono più importanti. La stessa percentuale ha dichiarato che lascerebbe il lavoro se lo ritenesse insoddisfacente. Considerano importante anche lavorare per un'azienda che enfatizzi valori ed etica. Una leadership e una direzione forte su questi temi da parte dell’azienda è rilevante per il 61% del campione e quasi un terzo (30%) si licenzierebbe se ritenesse i valori del datore di lavoro non in linea con i propri. Il 55% della Gen Z afferma che il datore di lavoro dovrebbe prendere sul serio responsabilità ambientale e sociale, quasi la metà (48%), infatti, preferisce non lavorare per un'azienda che non li ha definiti in maniera chiara. Il 50% ha dichiarato che lascerebbe il proprio lavoro se il datore facesse marcia indietro sugli obiettivi sociali o ambientali. La vita professionale è destinata a cambiare in modo significativo nei prossimi anni, su questo concorda la Gen Z. In seguito alle notizie di aziende che, in tutta Europa, hanno sperimentato con successo la settimana di quattro giorni, il 55% si aspetta che diventi la norma. Nel frattempo, per più di due terzi (69%) l'intelligenza artificiale e l'automazione diventeranno sempre più comuni negli uffici, anche se solo un terzo (35%) crede avranno un impatto sul proprio lavoro. Anche andare al lavoro in giacca e cravatta sembra avere i giorni contati. Il 57% afferma che i jeans sono ormai sdoganati. Solo uno su dieci (10%) sostiene che sia importante vestirsi come i colleghi e un quarto (25 percento) dice che userebbe l’abbigliamento per fare colpo. Il 55% afferma invece che essere comodi è una priorità, percentuale che sale al 65% tra le donne. Con la Gen Z alla ricerca di flessibilità e stipendi competitivi, il lavoro ibrido aiuterà le aziende ad assumere i migliori talenti. Uno studio di Global Workplace Analytics ha rilevato che l'adozione del lavoro ibrido e l'utilizzo di uffici flessibili possono far risparmiare alle aziende fino a 10mila euro per dipendente, offrendo contestualmente la flessibilità che i lavoratori desiderano.

Il benessere in azienda aumenta la produttività

Secondo l’indagine internazionale Disconnect To Reconnect di Adecco, ben il 73% delle aziende ritiene che il benessere dei dipendenti sia diventato molto importante per migliorare il loro tasso di engagement (39%) e soddisfazione (24%). Un dato confermato dal Future Workplace 2021 HR Sentiment survey condotto da Forbes, che rivela come il 68% dei responsabili Hr senior consideri il benessere psicofisico del personale come una delle massime priorità. La scelta dei benefit aziendali è sempre più vasta: non soltanto buoni pasto, abbonamenti per i trasporti pubblici e assicurazioni sanitarie, ma anche massaggi, frutta e verdura gratis, corsi di fitness, tornei di calcio internazionali e, soprattutto, iniziative che permettano di acquisire o migliorare le proprie competenze professionali, a cominciare da quelle linguistiche. «Il wellbeing è sempre stato al centro dell’attenzione dei team di Hr: in base alle proprie dimensioni, alla propria disponibilità economica, alle necessità e agli obiettivi da raggiungere, ogni azienda ha offerto cataloghi di partnership, sconti, voucher e opzioni diverse ai propri dipendenti - afferma in proposito Beatriz López Arredondo, Head of People di Twenix, società impegnata nel settore EdTech che offre percorsi formativi in inglese a imprese e professionisti, che ha realizzato un white paper sul benessere aziendale con i dati riportati sopra -. La vera rivoluzione rispetto al passato è che non sono più soltanto le grandi aziende, o multinazionali a prendere in considerazione piani di wellbeing, ma sempre più start up fondate da giovani e aziende in cui lavorano professionisti millennials e della generazione Z». Il cambiamento in atto è ben fotografato dal Welfare Index Pmi 2021, report annuale sul welfare nelle piccole e medie imprese italiane, che rivela come dal 2016 le aziende con un livello di welfare elevato siano aumentate in modo significativo, passando dal 9,7% al 21%, e quelle con un welfare di base siano scese invece dal 49,3% al 35,8%. Catalizzatrice indiscussa del processo è stata la pandemia, che ha riportato al centro i lavoratori come persone, dando un ruolo di primo piano alle loro esigenze individuali. Come spiega Randstad, il grado di benessere del personale e la qualità delle performance aziendali sono profondamente correlati: la creazione di un buon ambiente di lavoro e un equilibrio tra lavoro e vita privata riducono i tassi di assenteismo, incentivando la produttività e l’engagement dei team; una maggiore soddisfazione dei lavoratori produce fidelizzazione e dunque una minore rotazione del personale. Il che si traduce in un vantaggio economico, dal momento che investire su dipendenti già assunti ha un costo inferiore rispetto al formare nuove risorse; l’appagamento dei dipendenti favorisce una buona reputazione aziendale, con maggiori possibilità di attrarre nuovi talenti. Quando le politiche di welfare sono calibrate sui bisogni dei dipendenti, i risultati non tardano ad arrivare. Le stime emerse dal Welfare Index PMI 2021 lo mostrano chiaramente: le società con welfare come «leva strategica» hanno avuto un ritorno in termini di produttività, soddisfazione e fidelizzazione della forza lavoro. Eppure, gli studi concentrati sul wellbeing e sui suoi effetti positivi sui bilanci aziendali si scontrano con un altro dato di segno opposto. Adecco rivela infatti che solo un 1/3 delle aziende mette in atto iniziative volte al benessere dei lavoratori che vadano oltre all’offerta di orari e sedi di lavoro flessibili. Questo spiegherebbe perché il 45% dei dipendenti (60% in Italia) ritiene che la propria società non fornisca un supporto in termini di benessere. Inoltre aumentano anche in Italia le imprese caring ossia che puntano sulla valorizzazione delle persone e sulla sostenibilità. Lifeed riconosce 14 nuove realtà con il titolo di aziende caring company, tra cui: Bcc Banca Iccrea e Bcc Roma (Gruppo Bcc Iccrea), Biogen Italia, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), Gruppo Casillo, Happy Child, Leonardo, Liu Jo, Nespresso Italiana, Sperlari, Takeda Italia, Valore D. Il riconoscimento è destinato alle aziende che investono in leadership generativa e nelle proprie persone, condividendo i seguenti valori: la vita è maestra - sanno riconoscere la sinergia tra vita e lavoro valorizzando le esperienze di vita delle persone; prendersi cura è una forma di leadership - credono in una leadership incentrata sulla cura che rafforza e rende le persone capaci di esprimere tutto il loro potenziale; la diversità è un motore di innovazione - guardano alle persone con curiosità e coraggio, facendole fiorire nella loro interezza e nella loro diversità. Le aziende hanno sfide importanti da affrontare in un contesto lavorativo che vede le persone allontanarsi dai valori aziendali. Secondo il Report 2022 State of the Global Workplace di Gallup, solo il 4% degli italiani si sente coinvolto nel proprio lavoro. Un dato sconfortante che posiziona l’Italia all’ultimo posto in Europa insieme alle imprese italiane che nel contesto macroeconomico attuale, invece, hanno bisogno di crescere e di essere competitive all’insegna della sostenibilità. I dati dell’Osservatorio Vita - Lavoro di Lifeed, raccolti negli anni attraverso le riflessioni di 40 mila lavoratori in più di 100 aziende italiane e globali, invece, dimostrano che quando le imprese investono nello sviluppo delle persone grazie ai percorsi di self-coaching, aumentano l’engagement e le risorse disponibili: in particolare, l’82% dei lavoratori aumenta l’autoconsapevolezza, il 73% migliora la capacità di collaborazione e il 71% gestisce meglio lo stress sviluppando il proprio benessere.

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