domenica 3 ottobre 2010
Trent'anni fa a Torino la storica sfida dei colletti bianchi. Oggi l'azienda affronta un altro snodo decisivo per la sua esistenza. Ma i tempi, i modi, il clima, tutto è cambiato. Due protagonisti di allora a confronto: Cesare Romiti e Pierre Carniti.
COMMENTA E CONDIVIDI
Polemiche e proteste. La Fiat targata Marchionne negli ultimi mesi è stata al centro del dibattito. Il piano di investimenti da 20 miliardi di "Fabbrica Italia" punta a più produzione, più internazionalizzazione, col massimo di efficienza. Che significa lotta all’assenteismo e modifica dei turni di lavoro, con deroghe al contratto nazionale dei metalmeccanici. Una rivoluzione nelle relazioni industriali e sindacali che ha sconvolto Pomigliano, dove sono scattati scioperi e cortei, e su cui i sindacati hanno firmato la definitiva scissione: Cisl e Uil dialoganti con l’impresa, Cgil-Fiom in lotta. L’autunno si annuncia ancora caldo per il Lingotto e non solo, con tanti nodi da sciogliere sul futuro dello stabilimento campano, la chiusura di Termini Imerese, i tre licenziamenti di Melfi, il nuovo accordo sui contratti con Federmeccanica.Ma Fiat non è nuova a periodi di tensione. Purtroppo anche estrema. Come trent’anni fa, nel 1980, in una stagione drammatica per il nostro Paese, in cui fra gli scioperi e le proteste, s’infiltrò il terrorismo. Allora la grande ristrutturazione di Fiat, in una fase economica difficile, passò per l’annuncio, l’11 settembre, di 14mila licenziamenti: era la scintilla per uno sciopero a oltranza, con il presidio dei cancelli e il blocco di qualsiasi movimento di uomini e merci da Mirafiori e dagli altri stabilimenti. Una lotta di 35 giorni. I sindacati proclamarono uno sciopero generale a Torino il 2 ottobre. Lo scontro era durissimo. Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, in un comizio a Mirafiori il 26 settembre, rispondendo a un delegato, lasciò intendere che, qualora fosse stata decisa l’occupazione della fabbrica, il partito avrebbe dato il proprio sostegno. Il 27 settembre cadde il governo Cossiga, la Fiat ritirò i licenziamenti, i sindacati lo sciopero generale. Ma la lotta andò avanti, fino al 14 ottobre, quando 40mila fra capi e quadri della Fiat, sfilarono per le vie di Torino in nome del "diritto al lavoro". Il giorno dopo si firmò l’accordo per la cassa integrazione di 23mila lavoratori. Riaprirono le fabbriche e la produzione ripartì. Altri tempi, certo. Ma c’è un nesso con l’attuale situazione di Fiat? Ne parliamo con due protagonisti di quella stagione: l’ex Ad di Fiat, Cesare Romiti, e l’ex segretario generale della Cisl, Pierre Carniti. (G.Mat.)CESARE ROMITI: «COSI' VINCEMMO IL CONFRONTI CON GLI SCIOPERANTIMA QUELA DI OGGI E' DAVVERO TUTTA UN'ALTRA STORIA»«Era una stagione diversa, più gra­ve. Allora si am­mazzava, si rapiva. Non mi­schiamo le cose». Cesare Ro­miti era l’amministratore de­legato di Fiat in quell’autun­no caldo del 1980 in cui si scrisse una storica pagina delle relazioni fra industria e sindacati. La Fiat era lo spec­chio dell’Italia. Torino il cro­cevia dello sviluppo ma an­che delle tensioni. Personag­gio straordinario del mondo dell’industria e della finanza, a 87 anni, Romiti tiene le schermaglie attorno alla Fiat di oggi su un piano netta­mente diverso. «Non c’è nes­suna analogia – dice ad Av­venire Romiti, per 24 anni al­la guida del Lingotto al fian­co dell’Avvocato Agnelli –. Ho avuto sessanta persone gam­bizzate, l’uccisione del vice­direttore de La stampa, del direttore della programma­zione dell’Auto, un tentativo di rapimento personale. I pa­ragoni con oggi non ci sono». Azzardati. «È l’aggettivo e­satto. Facevamo i conti con il terrorismo che si era infil­trato nel sindacato. Nel con­siglio di fabbrica di Mirafio­ri, il Consiglione, c’erano le Brigate Rosse». La tensione esplose dopo i 61 licenzia­menti dell’anno prima e l’an­nuncio di un piano di esu­beri per 14mila operai. Scattò l’occupazione della fabbrica. Una protesta lunga 35 giorni. Sfiancante. «Di fronte alle proteste avvertivo la stan­chezza non solo degli operai, ma anche della città e dell’o­pinione pubblica. Bloccare la Fiat a Torino significava crea­re uno stato di paralisi tota­le ». Romiti voleva capirne di più. «Dopo trenta giorni di picchettaggio nelle fabbri­che, una sera ho preso la mia macchina senza avvertire la scorta. E ho fatto il giro di Mi­rafiori. Davanti ai cancelli si vedevano grandi falò, con gente che cantava, rideva, ballava. Quelli non erano operai in lotta per il lavoro. Quel canto e quel bivacco mi segnarono». Un ricordo che emozio­na ancora il dottore. Quel contrasto, fra il canto e il dramma, strideva. Stride an­cora. «Era un affron­to allo stato d’animo della città e dei lavo­ratori. In quel momento l’an­sia, i timori che mi avevano accompagnato per tutti quei giorni svanirono. Mi ero sempre chiesto se fossi riu­scito a spuntarla, fra le pres­sioni dei sindacati e il gover­no contro. In quel momento ho capito che ce l’avrei fat­ta ». Pochi giorni dopo ci fu la marcia dei 40mila. I quadri, i «colletti bianchi» uscirono al­lo scoperto, con uno slogan: «Il lavoro si difende solo la­vorando ». La popolazione si univa a loro. Fu una marcia li­beratoria. La Fiat la spunta­va sul sindacato. Romiti ce l’aveva fatta. «Io ero a Roma – ricorda –, a colloquio se­greto con i segretari di Cgil, Cisl e Uil, Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Ben­venuto. C’era anche Carlo Callieri, il capo del persona­le che ha avuto una grandis­sima parte in quella fase. Ai segretari – e ne erano consa­pevoli – era sfuggito il con­trollo dell’organizzazione. Il consiglione non rispondeva alle loro direttive. Quando ar­rivarono le prime notizie del­la marcia, Lama – grande uo­mo e sindacalista – mi guardò: 'È inutile che conti­nuiamo'. Carniti reagì più bruscamente: 'Caro Romiti, ha fatto questa marcia. Io do­mani, se voglio, in piazza ne porto 200mila'. Tornai a To­rino. La sera Lama mi te­lefonò: 'Dottore, torni a Ro­ma, riconosciamo di aver perso la battaglia'. Si chiuse un periodo tragico. Ripren­demmo il lavoro, nei mesi successivi crollò l’assentei­smo in fabbrica e la produ­zione crebbe. Ci furono sì e­suberi e cassa integrazione, ma il futuro dell’azienda e dei dipendenti era salvo». Una pausa. Poi aggiunge: «Pur nella tragica battaglia, il rapporto con il sindacato non venne mai meno. Ho sempre tenuto a quel rap­porto. Non ho mai tentato di dividere». Il destinatario del messaggio sembra chiaro. U­na stoccata dritta dritta per l’attuale Ad di Fiat, Sergio Marchionne… «Non è una stoccata, è la realtà – ribatte Romiti –. Il sindacato va con­trastato, mai diviso. Perché se una sigla rimane fuori, creerà una situazione di in­stabilità permanente negli stabilimenti». Attualizzando il Romiti-pensiero la Fiom ri­schia di restare una spina nel fianco nel futuro di Fiat. «Lo dice lei – continua, cercando sempre di restare lontano dal piano dell’oggi – ma pur­troppo lo è. Mi preoccupa il fatto che la Fiom possa por­tare un disturbo tale da in­durre l’azienda a trasferire grosse parti di produzione al­l’estero. Questo sarebbe un dramma per l’Italia». Detto da Romiti, che ha guar­dato sempre all’estero e che oggi presiede la Fondazione Italia Cina, sembra strano. «Non sono contrario all’in­ternazionalizzazione, ci mancherebbe. Lo stabili­mento più redditizio in Fiat è quello di Belo Horizonte in Brasile, che volli io, smon­tando la debole produzione in Argentina. Ma la Fiat è u­na azienda italiana. Nel san­gue, nell’indole, nel Dna. La testa e una parte notevole della produzione deve avve­nire in Italia». Lo sa proba­bilmente anche Marchionne che nel lanciare «Fabbrica I­talia » punta a potenziare la produzione italiana accanto agli investimenti esteri. Seb­bene il manager usi metodi diversi. E ami le provocazio­ni. «Mi auguro siano provo­cazioni », dice Romiti. La discussione volge per for­za di cose sul presente. E se le analogie non ci sono per l’ex numero uno di Fiat, è dif­ficile per noi non usare la fi­sarmonica della storia per accostare, con scenari diver­si, i delicati momenti del Lin­gotto di oggi a quella stagio­ne. La grande Fiat che ha 'ri­strutturato' Romiti ed eredi­tato Marchionne necessita di nuove spinte per competere nel mercato globale e i con­trasti sono all’ordine del gior­no. Non sono mancati scio­peri e licenziamenti, come a Melfi, per arrivare alle dero­ghe con il nuovo modello contrattuale. «Non andiamo sul tecnico – ci ferma Romi­ti –. I tempi cambiano. E i cambiamenti non mi stupi­scono. L’importante è man­tenere certi principi». C’è un insegnamento che viene da quella storia? «Che le batta­glie si vincono e si perdono in un confronto schietto. Ci in­segna la qualità delle perso­ne. Penso a Lama, ma anche a Carniti, Bertinotti e tanti al­tri. Sindacalisti che sapeva­no difendere i diritti degli o­perai con asprezza, ma ave­vano un grande senso di re­sponsabilità. Mi augurerei che anche i sindacalisti di og­gi avessero lo stesso senso di responsabilità. E soprattutto che nella difesa dei lavorato­ri non stessero a guardare a­spetti di carattere politico. L’azione sindacale deve es­sere la più lontana possibile dalla politica. Quella riguar­da l’elettorato di un Paese. Non le relazioni fra azienda, sindacato e operai». Giuseppe MatarazzoPIERRE CARNITI: «QUELLA NOSTRA LOTTA ESASPERATA ED ESAGERATA»«Eravamo riuniti con i vertici Fiat all’hotel Bristol di Roma, e a mano a mano che arrivavano notizie da Torino sulla manifestazione dei quadri, Cesare Romiti faticava a trattenere l’entusiasmo. Del resto era stato il capo del personale del gruppo, Carlo Callieri a promuovere l’iniziativa. Ma il successo andò oltre le loro stesse aspettative...». Pierre Carniti, segretario della Cisl dal 1979 all’85, ricorda così la cosiddetta «marcia dei 40mila», un avvenimento chiave di quell’autunno caldo di 30 anni fa. Nelle sue parole, la Fiat di allora e quella di oggi, diverse eppure simili nelle loro difficoltà strutturali e nella scelta di forzare la situazione fino allo scontro. E il racconto di quella lotta operaia del 1980 «esasperata e disperata» che «andava gestita diversamente», a confronto con lo scenario attuale quando si cerca all’opposto di «anestetizzare ogni conflitto».Classe 1936, leader della Cisl in un’epoca di grande seguito per i sindacati, Carniti rilegge i fatti cercando di trovare un filo comune tra l’autunno infuocato del 1980 e quello litigioso ma molto più tiepido di 30 anni dopo. Con Luciano Lama (Cgil) e Giorgio Benvenuto (Uil) fu tra i protagonisti di quei giorni. Protagonisti anche loro malgrado, perché lo sciopero a oltranza alla Fiat in quei 35 giorni fu deciso a spron battuto dai consigli di fabbrica e dai metalmeccanici torinesi dopo l’annuncio di migliaia di licenziamenti. L’ex sindacalista non si chiama fuori. «Di fronte a quella lotta demmo la nostra solidarietà. Ma nelle confederazioni ci furono perplessità e timori crescenti».Eppure, dopo la marcia dei 40mila lei fu tra i più restii a firmare l’accordo con la Fiat.Sì, cercai di convincere Lama a rinviare di almeno 3 o 4 giorni. Ero convinto che firmare all’indomani di quel corteo sarebbe stato percepito come una sconfitta grave e inaccettabile. Ma il capo della Cgil mi disse che non aveva più margini di manovra. Era pressato dal Pci, allarmato per le possibili conseguenze  elettorali negative di quegli eventi. Se fosse stato un accordo normale non l’avrei fatto ma in un frangente così difficile firmai anch’io. Le sconfitte vanno condivise, sarebbe stato vile tirarmi indietro.L’intesa diede il via alla cassa integrazione di 23mila lavoratori su 55mila, non più rientrati in Fiat. Nei giorni successivi i leader sindacali furono contestati dagli operai. Fu una sconfitta storica? Un cambio di epoca?Una sconfitta, ma resto convinto che se avessimo avuto la forza di resistere qualche giorno in più e trattare ancora, la marcia dei quadri non avrebbe avuto la stessa rilevanza anche simbolica che poi ha assunto.Perché uno scontro così aspro?La Fiat aveva problemi seri, perdeva quote di mercato e aveva troppi occupati. Volle aprire un conflitto col sindacato annunciando licenziamenti, anche mirati contro i rappresentanti di fabbrica, quando noi eravamo pronti a firmare la cassa integrazione a rotazione. Inoltre si parlava di operai vicini ai terroristi per influenzare l’opinione pubblica.Insomma fu una forzatura. E oggi?Oggi la Fiat va un po’ meglio ma ha difficoltà analoghe, con impianti sottoutilizzati e una caduta sul mercato. Temo che nei prossimi anni i 24mila occupati in Italia si ridurranno più di quanto detto. E anche oggi Sergio Marchionne si è inventato dei nemici: la Fiom e il contratto nazionale. Intendiamoci, la Fiom può essere inutilmente dogmatica. Ma come si spiega che nel 2007 e 2008 la Fiat ha proposto buoni modelli e ha guadagnato soldi, nonostante la Fiom e il contratto? Né mi pare che negli ultimi anni ci siano stati tanti scioperi. Hanno trovato un diversivo ma la vera malattia della Fiat non è stata detta.Ai sindacati di oggi cosa direbbe?C’è una dialettica che non aiuta, con responsabilità da ambo le parti. Direi loro di chiedere a Fiat più trasparenza. Da dove vengono i 20 miliardi di investimenti annunciati in Italia, come e dove saranno spesi? C’è reticenza. E al di là del caso specifico, dico che a volte si deve litigare e che il conflitto, purché non distruttivo, può essere elemento di progresso e migliorare la produttività. Da quando si teorizza il quieto vivere il reddito dei lavoratori italiani è sceso dell’8% rispetto al Pil. Ai miei tempi gli estremisti teorizzavano l’esproprio proletario. Poi si è passati all’opposto, l’esproprio proprietario. Nicola Pini
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: