mercoledì 10 agosto 2011
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Sono passati quattro anni dal crollo delle Borse che ha aperto la grande recessione globale. «Da quel momento è diventato evidente a tutti che il modello di crescita consumistica a debito che aveva adottato l’America non era più sostenibile». Parte da qui, Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, per disegnare il percorso che ha portato alla nuova ondata di crolli borsistici di queste settimane.I mercati attraversano una fase di turbolenze nuova e diversa dalle precedenti. È la crisi iniziata nel 2007 che ancora non trova soluzione?In qualche maniera sì. Perché nessuno è riuscito a indicare una via d’uscita chiara e definita da quella crisi. Tutte le varie exit strategy sono state inconsistenti e contraddittorie. Gli Stati Uniti si erano abituati a crescere grazie alle spese di famiglie sempre più indebitate. Tra il ’98 e il 2008 il debito delle famiglie americane, conviene ricordarlo, è aumentato del 50%. Finché non è arrivato il momento in cui quelle famiglie non sono più riuscite a pagare i loro debiti. Il sistema delle banche si è trovavo pieno di debitori insolventi ed è saltato, trascinando con sé tutto l’apparato finanziario che gli era stato costruito intorno. A quel punto ecco che lo Stato è intervenuto per nazionalizzare il debito privato. È stata una strategia d’uscita, tra l’altro perseguita in maniera discontinua, che si è dimostrata sbagliata. Non è andata meglio in Europa, dove invece si è dovuto fare il contrario, cioè privatizzare il debito pubblico scaricandolo sulle famiglie attraverso nuove tasse e portando a zero i tassi di interesse, che significa scoraggiare il risparmio. Negli ultimi mesi sia gli Stati Uniti che l’Europa si sono accorti che, con queste strategie, la crescita è irraggiungibile.Questo significa che le Borse stanno pagando il fallimento delle politiche anticrisi adottate in questi quattro anni dai governi?I valori della Borsa esprimono la fiducia nel reddito che un’impresa saprà dare in futuro. Gli investitori hanno dovuto ridurre le loro aspettative sull’andamento di molte aziende quotate perché le prospettive di crescita diventano incerte mentre i rischi aumentano. Poi interviene anche la speculazione, che esaspera i guadagni e le perdite. Dietro i crolli di queste settimane, però, c’è prima di tutto il ridimensionamento delle aspettative sull’economia mondiale.Se Stati Uniti ed Europa faticano a trovare la via che le possa riportare alla ripresa, non potrebbe essere la Cina, nuova potenza economica, a sostenere la crescita globale?Ricordiamoci che per mezzo secolo l’economia mondiale è stata saldamente in mano a due blocchi, trainanti e maturi: gli Stati Uniti e l’Europa. Adesso questi due blocchi sono in difficoltà e si spera di trovare un nuovo motore della crescita. Tutti citano la Cina. Ma oggi la Cina ha un Pil che è un quarto di quello degli Stati Uniti, è un Paese che ha vissuto di commercio estero, ha prestato migliaia di miliardi di dollari all’America. La Cina, da sola non può essere a breve il motore della crescita economica mondiale, perché per crescere in maniera equilibrata non può prescindere da un Occidente forte. Questa incertezza su chi sarà a guidare l’attività economica del mondo è così un’altra delle grandi incognite che pesano sulle Borse.L’Italia, stretta tra un altissimo debito pubblico e una crescita molto debole, appare particolarmente in difficoltà in queste settimane. Come fare per allentare la tensione?Siamo un Paese che ha delle difficoltà ma anche molti punti di forza. A differenza degli Stati Uniti siamo riusciti a crescere per molti anni senza indebitare le famiglie. Il nostro debito pubblico è aumentato molto, ma non tanto per sostenere la crescita quanto per tenere in piedi un sistema di welfare particolarmente costoso. Però l’Italia non è più indebitata degli altri nel sistema totale del debito. Nel calcolare il debito di un sistema economico bisogna infatti includere il debito pubblico, ma anche i debiti delle famiglie, delle banche, delle imprese. La somma di questi debiti rapportata al Pil dà un risultato simile in quasi tutte le nazioni occidentali. Cambia solo la sua ripartizione. Negli Stati Uniti, per esempio, il peso dei debiti privati sul debito totale è quasi uguale a quello del debito pubblico italiano. Da noi invece le famiglie non sono indebitate, anzi: hanno risparmi che valgono sei volte il debito pubblico. È utilizzando virtuosamente questa ricchezza che possiamo rilanciare il Paese.In che modo è possibile concretizzare questo rilancio attraverso un «uso virtuoso» dei risparmi?Io credo che ogni economia debba uscire dalla crisi a partire dalle sue caratteristiche specifiche. L’Italia ha due grandi ricchezze: una è appunto il risparmio delle famiglie, l’altra è un’eccellente rete di piccole e medie imprese con scarsi capitali. Per questo dobbiamo trovare un modo di fare convergere il risparmio sulle aziende. Questa è la grande scommessa per la crescita italiana, e possono esistere diverse soluzioni per concretizzarla. Il punto è capire che il debito si abbatte con la crescita e quindi i risparmi vanno usati per favorire lo sviluppo. Per questo sono assolutamente contrario all’idea di tagliare il debito tassando i patrimoni, che significherebbe privatizzare il debito pubblico senza nessun effetto positivo sul Pil, e permetterebbe un ulteriore aumento della spesa. Sprecare i risparmi degli italiani sarebbe un suicidio economico.Ogni Paese ritorna alla crescita trovando la propria strada. È in questo modo che può arrivare la ripresa globale?Il fatto che ogni nazione debba crescere favorendo le proprie migliori caratteristiche non significa che dalla crisi si possa uscire da soli. Nessun Paese oggi è indenne dalle difficoltà degli altri. Per questo è fondamentale che le nazioni del mondo si mettano a discutere seriamente di come superare la crisi e delle regole per crescere assieme. Il bene comune, questo è quello che dovrebbero capire, si ottiene valorizzando gli altri, non privilegiando il proprio egoismo. Bisognerebbe rileggersi le Encicliche. Nella Sollecitudo rei socialis, Giovanni Paolo II aveva previsto che l’uomo di questo secolo avrebbe sviluppato grandi tecnologie, ma non avrebbe avuto sufficiente saggezza per gestirle per l’uomo stesso, e quindi gli sarebbero sfuggite di mano. Infatti è successo. La Caritas in veritate riparte dallo stesso punto: un uomo che non sia guidato da riferimenti di verità che lo portino a considerare la propria centralità sugli strumenti ne perde il controllo. Con una visione dell’economia lontana dall’umanesimo si sono compromessi i fini per i mezzi, si è pensato che l’uomo fosse un essere intelligente da soddisfare solo materialmente. I capi di Stato vanno aiutati a comprendere che questa visione è sbagliata fin dalle fondamenta. Se non lo capiranno temo che continueremo a piangere per molti lustri.
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