mercoledì 26 maggio 2021
I laureati italiani cercano lavoro all'estero per via delle retribuzioni più alte, nel nostro Paese il titolo di studio non dà garanzie occupazionali e costa troppo
La cerimonia di proclamazione dei dottori di ricerca dell'Universita' di Bologna

La cerimonia di proclamazione dei dottori di ricerca dell'Universita' di Bologna - Ansa

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L'Italia non è un Paese per giovani talenti, che infatti sempre più spesso fuggono all’estero. Un’emorragia continua di "cervelli" – laureati, scienziati e ricercatori – che la Corte dei Conti ha fotografato nel suo Referto sul sistema universitario 2021 sottolineando come in otto anni (dal 2013 ad oggi) ci sia stato un aumento del 41,8% dei trasferimenti per lavoro. Il rapporto evidenzia come nell’ultimo decennio sia aumentata quota di laureati tra i più giovani (25-34 anni). Nel 2019 il 34% delle donne in quella fascia d’età e il 22% dei coetanei era in possesso di un diploma di laurea ma rispetto agli altri Paesi Ocse siamo ancora molto indietro (la media Ocse è del 51% per le donne e del 39% per gli uomini). Un fenomeno riconducibile sia alle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro sia al fatto che il possesso della laurea non offre, come invece avviene in area Ocse, possibilità d’impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore (solo il 68% dei laureati italiani ha un lavoro contro la media Ocse dell’85%). Le limitate prospettive occupazionali, con adeguata remunerazione, spingono sempre più laureati a cercare fortuna all’estero.


Difficile stabilire con esattezza quanti siano i cervelli in fuga. Gli ultimi dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Il problema, infatti, diventa ancora più grave se ci si concentra su questa categoria. Quasi tre cittadini italiani su quattro trasferitisi all’estero hanno 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati), di essi, il 32% sono laureati. Rispetto al 2009, l’aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10%) che tra gli uomini (+7%).


Nel Referto sul sistema universitario 2021 della Corte dei Conti viene passata in rassegna l’offerta formativa di 98 atenei di cui 67 statali e 31 non statali, e viene evidenziata anche una profonda differenza tra le università del Nord e quelle del Sud e molte criticità per le undici realtà telematiche sulla base delle indicazioni dell’Anvur, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema universitario. Un aspetto fondamentale è la motivazione economica della fuga dei giovani italiani: trovare un lavoro in linea con le proprie aspettative nel nostro Paese è un’impresa. Emerge anche una sorta di volontà di riscatto dopo il peso delle tasse universitarie che grava sulle famiglie. Uno studio di Confindustria stima che una famiglia spende 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni, mentre lo Stato ne spende 100mila in scuola e università. «Il mancato accesso o l’abbandono dell’istruzione universitaria dei giovani provenienti da famiglie con redditi bassi» secondo il rapporto della Corte dei Conti è dovuto «oltre che a fattori culturali e sociali, al fatto che la spesa per gli studi terziari, caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate rispetto a molti altri Paesi europei, grava quasi per intero sulle famiglie, vista la carenza delle forme di esonero dalle tasse o di prestiti o, comunque, di aiuto economico per gli studenti meritevoli meno abbienti». Si tratta di un aspetto che, per la magistratura contabile deve essere risolto con interventi normativi mirati alla valorizzazione del merito studentesco.


Tra le tante cose che potrebbero funzionare meglio il rapporto sottolinea alcune "criticità" nell’ambito della ricerca scientifica, con investimenti pubblici al di sotto della media europea ed un’eccessiva complessità sul fronte della programmazione e dell’esecuzione, sui programmi di istruzione e formazione professionale. Per quanto riguarda i percorsi di studio viene sottolineata la mancanza di laureati in discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) che incide negativamente sul tasso di occupazione.

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