mercoledì 1 aprile 2009
Dopo lo «scandalo» dei compensi ai manager del gruppo americano Aig anche in Italia si discute se limitare le remunerazioni straordinarie Ma così si rischia di cancellare, assieme agli eccessi, anche uno strumento che lega parte dei compensi ai risultati
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La questione di 'quanto' e di 'come' pagare i manager richiede la valutazione di tante prospettive che, nella società globale e complessa, sono tutte 'interdipendenti'. È un tema che proprio per questo nasconde molte trappole suggerendo scelte emotive e pericolose scorciatoie. I commenti sin qui susseguitisi, e che negli ultimi giorni hanno ripreso straordinario vigore a seguito dell’'ira di Obama' per i superbonus pagati dall’Aig, il colosso assicurativo tenuto in piedi dai contributi federali, le stanno mettendo a poco a poco in evidenza. Di fondo ci sono due atteggiamenti. Da un lato, quello di tipo 'giustizialista', che vuole mettere fine a queste pratiche inaccettabili senza concedere spazio all’approfondimento e rischiando di incorrere nelle molte trappole che il fascino del 'fare' propone. Dall’altro, c’è invece un atteggiamento più 'garantista' che, pur sanzionando senza esitazioni gli eccessi e le cattive pratiche, è preoccupato maggiormente di individuare soluzioni appropriate alla gestione di un tema complesso. Le emozioni, indubbiamente, giocano un ruolo significativo in questa partita. Resta il fatto che la crisi e gli scandali sono riusciti a svelare su questa vicenda, meglio che su altre, quanto si sia perso il senso della misura e della realtà nell’economia e nella gestione degli affari. Sulla retribuzione complessiva dei top manager (executive pay) il sistema è uscito fuori dell’orbita del 'senso di realtà' almeno in tre punti. Vediamo il primo. Per molti anni si è rafforzata la teoria e l’opinione che il pacchetto retributivo dei Chief executive officer (gli amministratori delegati) delle imprese dovesse avere il suo riferimento unico e indiscutibile nelle performance economiche delle società guidate. Come a dire che i risultati hanno in sé tale forza da poter autorizzare qualunque trattamento. Questa convinzione oggi è stata drammaticamente travolta dagli eventi che ne hanno evidenziato limiti e paradossi. Insomma, un punto ci sembra sia stato acquisito: la performance economica di un’impresa non è sufficiente da sola a legittimare qualunque ricompensa e quindi non può ammettersi una esclusiva e autoreferenziale relazione tra risultati ed executive pay. C’è un secondo punto, però, di fuoriuscita dall’orbita del 'senso di realtà' messo in rilievo dalla cronaca economica e manageriale. Si tratta della questione relativa ai 'differenziali retributivi', ossia la distanza tra la retribuzione del vertice di un’impresa e quella della fascia più bassa dei suoi collaboratori. Ma c’è una misura giusta? Nessuno conosce o è capace di indicare, in realtà, un rapporto corretto perché le variabili da prendere in considerazione sono troppe. Ma il 'senso di realtà' va trovato anche su questo punto. Crediamo, in generale, che le imposizioni per legge, o comunque non fondate su meccanismi di moral suasion, servano a poco ovunque; nel mercato, poi, funzionano ancor meno e mettono in moto meccanismi di fuga o incentivano altri comportamenti opportunistici. Può essere anche questa una trappola e, se si preferisce, una comoda foglia di fico utile per chi non si vuole assumere le proprie responsabilità di decisione sul merito degli stipendi, pensando invece che il compito sia solo quello – come ha scritto Roger Abravanel – di vigilare sulla compliance (l’osservanza) dei pacchetti retributivi con regole e procedure. La crisi però ha messo al centro questo aspetto togliendo di mezzo un tabù; la 'questione distributiva' e la sostenibilità di differenziali retributivi fondati su multipli accettabili sono temi di cui ora si può e si deve parlare. Va costruita una nuova sensibilità sociale su cui innestare, poi, le autonome decisioni delle imprese sui livelli di ricompensa che dovranno fare i conti – se 'fuori misura' – con il costo dell’indignazione e dello sdegno ( outrage cost) che susciterebbero nella comunità degli affari e ancora prima nella società. E veniamo così al terzo punto di fuoriuscita dall’orbita del 'senso di realtà': l’allocazione delle risorse incentivanti nel breve e nel medio-lungo periodo. Progressivamente, almeno dalle nostre parti, è di molto cresciuto nel pacchetto retributivo dei top manager il peso della prima con incentivi anche pari in alcuni casi al 100% della retribuzione fissa; è cresciuto molto meno invece il peso della seconda componente. Quello che è successo in questi mesi ha fatto allora aprire gli occhi consigliando, per il futuro, di rivedere il quantum (forse anche le altre clausole che compongono i pacchetti) e di rovesciare drasticamente questa proporzione ridimensionando valore e peso della parte variabile di breve a vantaggio di quella di medio e lungo periodo. Insomma, va bene ricompensare chi crea valore ma i premi vanno ancorati a dimensioni temporali sostenibili. La crisi sembra dunque stia generando un auspicabile processo di ripensamento e di revisione delle politiche di remunerazione del management; alcune linee guida già ci sono; resta ora da vedere in concreto come si traducano in decisioni e provvedimenti. In tutto questo, però, si corre un rischio. Che il movimento di indignazione sociale verso 'retribuzioni fuori misura' possa tramutarsi in un giudizio sommario sugli strumenti di incentivazione economica. Sarebbe un grave errore perché butteremmo via un lento e ancora incompleto processo di cambiamento della cultura manageriale che – non senza difficoltà – vuole controllare la crescita della retribuzione garantita dei manager introducendo al suo fianco anche una quota variabile legata a capacità e merito. Circostanza questa certamente positiva, che non può essere demonizzata dal clima di sospetto verso i bonus e gli incentivi in genere. Sempre che si consideri una buona pratica nel business management e nella società quella del 'merito' che intende ricompensare prestazioni superiori incentivando impegno, capacità e risultati. Il tema semmai è come trovare risorse aggiuntive per continuare a investire perché la società, il mercato e lo Stato promuovano con più decisione proprio una maggiore 'differenziazione' fondata sul merito, evitando al tempo stesso di trasformare gli incentivi in nuovi 'premi garantiti' o lasciando che la decisione del loro riconoscimento non sia basata su criteri condivisi o sia lasciata alla discrezionalità di qualcuno. Attenzione dunque a non buttare via con l’acqua sporca anche il bambino. Andremmo di nuovo fuori dell’orbita, questa volta del 'buon senso'.
I DATIFino a 400 volte lo stipendio d’un impiegatoCome sono le politiche di remunerazione dei dirigenti in Italia? Anche da noi scattano bonus milionari a prescindere dai risultati di bilancio? Rispondere non è semplice perché non ci sono molti dati codificati a riguardo. Ma per comprendere qualcosa in più è necessario distinguere quantomeno tre grandi categorie, con regole e remunerazioni assai diverse.La prima è quella dei top manager: amministratori delegati, presidenti, direttori generali e settoriali di grandi imprese e soprattutto di istituti di credito. Per loro, tra compensi diretti, bonus legati ai risultati e in molti casi stock option, le remunerazioni raggiungono le decine di milioni l’anno. Per fare qualche esempio, riferito al 2007 anno pre-crisi, Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa ha ricevuto 2 milioni di emolumenti, 287mila euro di benefici non monetari, e 1,5 milioni di bonus. Alessandro Profumo, A.d. di Unicredit ha guadagnato 426mila euro di emolumenti, 6 milioni di bonus e 3 milioni di "altri compensi". In generale, i top manager delle banche e dei grandi gruppi portano a casa dal milione alla decina di milioni di euro all’anno. Se si considera che in media un impiegato guadagna poco più di 25mila euro l’anno il rapporto del guadagno dei top manager va da 1 a 40 a 1 a 400 volte.La seconda categoria comprende i dirigenti pubblici di prima fascia che non arrivano a guadagni milionari ma, secondo uno studio dell’università Bocconi, hanno il «bonus assicurato». Oltre il 90% di loro infatti incassa il premio al di là di una reale valutazione dei risultati. Limitato però l’importo del beneficio che oscilla tra il 5 e il 10% dello stipendio.La terza categoria, assai più diffusa, è quella delle migliaia di dirigenti "semplici" del settore privato. I loro guadagni, secondo quanto riporta l’ultimo rapporto di OD&M Consulting sulle retribuzioni, nel 2008 è stato di 103mila euro in media, tutto compreso. Circa 4 volte la remunerazione media di un impiegato e quasi 5 volte quella di un operaio. (F.Ricc.)
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