martedì 16 giugno 2020
Presentato il Rapporto “La Bioeconomia in Europa”, giunto alla sua sesta edizione, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo assieme ad Assobiotec e il Cluster Spring
Anche la produzione di energia da biomasse rientra nella filiera della bioeconomia

Anche la produzione di energia da biomasse rientra nella filiera della bioeconomia - Archivio

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La pandemia causata dal virus Sars-Cov2 ha reso ancora più evidente la necessità di ripensare il modello di sviluppo economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. In questo contesto il ruolo della bioeconomia, intesa come sistema che utilizza le risorse biologiche terrestri e marine, così come gli scarti, per la produzione di beni e di energia, è molto rilevante: la sua natura fortemente connessa al territorio, la sua capacità di creare filiere multidisciplinari integrate nelle aree locali e di restituire, grazie a un approccio circolare, importanti nutrienti al terreno la pongono come uno dei pilastri del Green New Deal lanciato dall’Unione Europea. Dal Rapporto La bioeconomia in Europa, giunto alla sua sesta edizione, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo assieme ad Assobiotec e il Cluster Spring, emerge che nel 2018 l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia in Italia (includendo sia la gestione e il recupero dei rifiuti biocompatibili sia il ciclo dell’acqua) ha generato una produzione pari a circa 345 miliardi di euro, occupando oltre due milioni di persone. Secondo le stime il valore della produzione della bioeconomia nel 2018 è cresciuto di oltre aette miliardi rispetto al 2017 (+2,2%), grazie al contributo positivo della maggioranza dei settori considerati e in particolare dei comparti legati alla filiera agro-alimentare. Il confronto europeo evidenzia come il nostro Paese si posizioni al terzo posto in termini assoluti per valore della produzione, dopo Germania (414 miliardi) e Francia (359 miliardi), e prima di Spagna (237 miliardi), Regno Unito (223 miliardi) e Polonia (133 miliardi). Anche per quanto riguarda il numero di occupati nella bioeconomia l’Italia si posiziona terza, con poco più di due milioni di occupati, dopo la Polonia, che occupa 2,5 milioni addetti (soprattutto nel settore agricolo) e la Germania (2,1 milioni di occupati).

In forte sviluppo negli ultimi anni, anche le start up innovative operative nell’ambito della bioeconomia: l’aggiornamento al febbraio 2020 delle stime basate sul Registro delle start up innovative attribuisce alla bioeconomia una quota dell’8,7%, pari a 941 dei soggetti innovativi iscritti, con una continua crescita che culmina con una quota vicina al 17% nei primi due mesi del 2020. La maggior parte delle start up della bioeconomia è attiva nella Ricerca & Sviluppo e nella consulenza, comparto che, da solo, rappresenta oltre il 50% del complesso dei settori, con ben 496 start up innovative. Segue il settore dell’alimentare e bevande con 119 soggetti e il mondo dell’agricoltura (con 81 start-up innovative pari all’8,6%), confermando la centralità della filiera agri-food nel mondo della bioeconomia. La filiera agro-alimentare italiana, altamente integrata nel contesto europeo e con una crescente proiezione internazionale, conserva una forte base domestica, con ben sei regioni su 15 nel ranking del valore aggiunto europeo del settore agricolo.

La filiera agro-alimentare è uno dei pilastri della bioeconomia, generandone oltre la metà del valore della produzione e dell’occupazione e svolgendo, oltre alla funzione primaria della nutrizione e della salvaguardia della salute, un ruolo fondamentale per la protezione della biodiversità, la cura del territorio e la trasmissione dell’identità culturale. L’analisi basata sul World Input-Output Database, che considera le interrelazioni tra settori e paesi del mondo in termini di valore aggiunto, evidenzia come la filiera agro-alimentare europea sia altamente integrata. Nel tempo si è assistito ad un suo allungamento, con l’ingresso dei paesi asiatici, degli Stati Uniti e del Brasile. Al contempo, però, si sono intensificati i legami interni all’Unione Europea: oltre a Germania, Francia, Italia e Spagna, che dominano per ampiezza della propria filiera e per apporto di valore aggiunto alle filiere dei partner, anche gli altri paesi dell’Unione sono in grado di giocare un ruolo determinante, mettendo a fattor comune le eccellenze del proprio tessuto produttivo. Grazie a questo intreccio di relazioni, l’Europa occupa una posizione di rilievo, con una quota di valore aggiunto che confluisce nella produzione agrifood globale (Global Value Chain Income) del 16,8%, che sale al 20,4% nel caso della fase di trasformazione dell’alimentare e bevande, risultato che ci pone al vertice della classifica internazionale, davanti a Cina (18,9%) e Stati Uniti (15%). Rispetto ad altri settori, l’agro-alimentare conserva comunque una forte base domestica: in Italia quasi l’80% del valore aggiunto è di derivazione nazionale, considerando non soltanto gli input prodotti internamente ma anche l’apporto degli altri settori: i contributi più rilevanti giungono dalla chimica, dalla gomma-plastica, dai prodotti in metallo, dagli intermedi in vetro/ceramica, dai prodotti in carta/cartone e in legno (sughero) e dai servizi legati al trasporto ed alla distribuzione. Se ci si limita agli input interni al settore a valle dell’alimentare e bevande, per quanto riguarda l’Italia, il contributo domestico è pari al’80% per le materie prime agricole (con apporti rilevanti da Francia, 3,2% e tra gli extra-Europei, il Brasile, con l’1,7%) e sale al 95% per gli input alimentari, a testimonianza del forte radicamento della produzione alimentare a livello locale nel nostro paese. La ricchezza e la varietà della produzione agro-alimentare italiana è infatti espressione delle diverse specificità territoriali e tradizioni locali. Nell’agricoltura, silvicoltura e pesca, tra le prime 15 regioni europee per valore aggiunto ben sei sono italiane: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Sicilia, Puglia e Campania (contro tre regioni spagnole, quattro francesi, una olandese e una tedesca). Ed è caratterizzata, a fronte di un tessuto produttivo maggiormente frammentato, da una specializzazione in prodotti a elevato valore aggiunto e di alta qualità, con il primato delle certificazioni Dop/Igp e il terzo posto mondiale in termini di quota di mercato sui prodotti del food di alta gamma In Italia il sistema agro-alimentare, con un peso sul totale europeo del 12% in termini di valore aggiunto e del 9% in termini di occupazione, si posiziona ai primi posti in Europa. La filiera presenta alcune specificità che la rendono un esempio importante nel panorama europeo. Il settore agricolo italiano presenta una elevata frammentazione del tessuto produttivo (la dimensione media per azienda agricola è di circa 11 ettari in Italia, contro gli oltre 60 di Francia e Germania) e una minor superficie agricola utilizzata (12,6 milioni di ettari di Sau in Italia, mentre Francia e Spagna hanno a disposizione per l’utilizzo agricolo superfici estese circa il doppio). Il nostro sistema agricolo è basato su un’elevata varietà delle produzioni (nella maggior parte dei paesi europei oltre la metà della superficie agricola totale è invece destinata ai seminativi, mentre in Italia questa percentuale supera di poco il 40%), che esprimono un maggiore valore aggiunto (come dimostra la rilevanza della coltura della vite). La fase di trasformazione dell’industria alimentare e delle bevande italiana è anch’essa caratterizzata da imprese mediamente più piccole rispetto al contesto europeo, a cui si affianca un nucleo ristretto di medi e grandi operatori altamente competitivi. L’alimentare e bevande italiano si caratterizza per un’elevata diversificazione di prodotto (la più elevata nel contesto europeo), frutto di una significativa presenza di nicchie basate sulla ricchezza espressa dalla tradizione eno-gastronomica del Paese. L’Italia è il primo Paese in Europa per numero di produzioni Dop/Igp, sia sul lato Food (che comprende anche le tipicità agricole) sia su quello dell’industria delle bevande, con un totale complessivo di 862 prodotti. Negli ultimi anni, è fortemente aumentata la propensione all’export: a livello globale l’Italia è il sesto esportatore del settore, con una quota di mercato (calcolata a dollari correnti) che raggiunge nel 2018 il 3,9%, su livelli sostanzialmente stabili rispetto al 2008, un buon risultato a fronte della erosione di quote subita da altri player europei. L’attenzione alla qualità del Made in Italy alimentare è confermata dall’analisi delle quote sui mercati mondiali per i prodotti di fascia di prezzo elevata: l’Italia conquista il podio, come terzo esportatore mondiale per l’alto di gamma alimentare con una quota pari a 5,8% (dopo Stati Uniti e Paesi Bassi). L’alimentare e le bevande italiani rivestono un ruolo importante, nel panorama europeo, anche in termini di capacità innovativa: nonostante la ridotta dimensione, le imprese italiane presentano nel 2017, secondo le stime su dati Eurostat, una spesa per R&S pari all’1% circa del valore aggiunto, in significativo aumento rispetto allo 0,6% del 2020. Questo dato colloca l’Italia sopra la Francia e la Germania e sotto i Paesi Bassi. Secondo i dati dell’ultima inchiesta comunitaria sull’innovazione, l’Italia si colloca in seconda posizione tra i grandi player europei anche per quanto riguarda la percentuale di imprese dell’alimentare e bevande che hanno introdotto innovazioni di prodotto e di processo (49,2%).

L’Italia dell’agrifood, inoltre, si caratterizza per una maggiore biodiversità (garantita dall’elevata quota di superficie dedicata a bosco) e per una elevata quota di terreni dedicati all’agricoltura biologica. L’Italia, infatti, è tra i leader europei con quasi 2 milioni di ettari di terreni già convertiti o in corso di conversione al biologico, un’estensione di poco inferiore a Francia e Spagna ma in percentuale molto maggiore sulla superficie agricola utilizzata (15,2%). Spiccano, in questo senso, alcune regioni del Mezzogiorno che primeggiano nell’ambito delle superfici coltivate con metodo biologico: le regioni più “bio” d’Italia sono Sicilia, Calabria e Puglia, che detengono il 47% dei terreni e il 53% delle aziende convertite al biologico. La certificazione biologica ha consentito alle imprese di ottenere migliori risultati sia in termini di crescita del fatturato che di redditività: l’analisi basata su un campione di oltre 9.300 imprese dell’agro-alimentare italiano, evidenzia come le imprese con certificazioni biologiche abbiano registrato una crescita del fatturato del 46% tra il 2008 ed il 2018, quasi doppia rispetto al +25% delle imprese senza certificazioni. In ottica circolare i rifiuti organici rappresentano una fonte importante di biomassa che deve essere opportunamente valorizzata sotto forma di biomateriali e bioenergia. Ogni livello della filiera agroalimentare produce rifiuti di diversa natura e in quantità mutevoli. Nel complesso a livello europeo i rifiuti agroalimentari prodotti dalla filiera ammontano a 87 milioni di tonnellate, pari a171 kg pro-capite. Il settore che incide maggiormente è quello delle famiglie (33 milioni di tonnellate, pari al 38% del totale e a 65 kg pro-capite), segue la trasformazione industriale (24 milioni di tonnellate, pari al 28% del totale e a 48 kg pro-capite) e quindi il settore agricolo (17 milioni di tonnellate, 20% del totale della filiera e 34 kg pro-capite). Con riferimento ai rifiuti domestici, i rifiuti organici raccolti dipendono dalla diffusione e capillarità dei sistemi di raccolta differenziata e in particolare dall’adozione della raccolta separata della frazione umida. Il settore delle famiglie produce in media europea 65 kg pro -capite di rifiuti organici. Germania e Italia mostrano i valori più elevati con rispettivamente 121 e 107 kg pro-capite. I rifiuti della trasformazione industriale sono pari a 48 kg per abitante e a 5,1 tonnellate per addetto a livello europeo. In Italia entrambi gli indicatori si attestano a meno della metà della media Ue (rispettivamente 15 kg pro-capite e 2 tonnellate per addetto). I rifiuti animali e vegetali vengono in larga parte riciclati: il 90% dei rifiuti trattati a livello europeo viene, infatti, riciclato e solo il 6% viene termovalorizzato, circa il 2% viene incenerito senza recupero energetico e un altro 2% viene smaltito in discarica. La maggior parte dei rifiuti organici viene riciclata sotto forma di compost; negli ultimi anni ha tuttavia acquistato rilevanza anche la produzione di biogas e di biomateriali. Il regolamento europeo del 2019 sui fertilizzanti rappresenta un importante e significativo passo avanti nella possibilità di utilizzo del compost ottenuto da rifiuti organici in ambito agricolo. La filiera agroalimentare ha un impatto significativo sia in termini di emissioni sia di consumi idrici: la sostenibilità ambientale è legata al modello produttivo, al riutilizzo della risorsa idrica e alla riduzione degli sprechi alimentari che rappresentano emissioni di CO2 e consumi idrici inutili ed evitabili. La produzione agricola, la trasformazione industriale, il trasporto e il consumo di cibo hanno impatti importanti sulle emissioni di gas serra. A livello europeo le emissioni complessive del comparto Agricoltura, silvicoltura e pesca nel 2018 sono state pari a 527 milioni di tonnellate di Co2 equivalente, pari al 15% del totale delle emissioni. L’Italia è l’unico paese fra quelli analizzati ad evidenziare sia una incidenza inferiore del comparto sul totale delle emissioni (12%) sia una minore intensità rispetto alla media europea (1.144 grammi per euro rispetto a 2.253 registrati a livello europeo). Il comparto dell’industria alimentare ha prodotto complessivamente a livello europeo 64 milioni di tonnellate pari all’1,8% delle emissioni complessive e l’impatto della trasformazione industriale italiana è allineato al dato medio europeo sia in termini incidenza che di intensità. Il settore agricolo è un grande utilizzatore di acqua sia a scopi irrigui che zootecnici: le pratiche irrigue dipendono dalle condizioni meteoclimatiche, dalle colture praticate e dalle metodologie colturali mentre i fabbisogni idrici e i relativi consumi a scopo zootecnico risultano variabili tra le diverse specie animali e sono anche influenzati da fattori ambientali e gestionali. L’Italia si posiziona tra i paesi con la più elevata propensione all’irrigazione con una superficie irrigata sul totale della superficie agricola utilizzata pari al 20,2%. La chiusura del cerchio e l’adozione di politiche volte alla prevenzione, alla depurazione, al riuso e al riutilizzo, proprie della circular economy, rappresentano un passaggio importante per mitigare lo stress idrico. Il comparto agricolo giocherà un ruolo importante nel riuso, che all’oggi risulta ancora molto limitato. La sostenibilità della filiera agroalimentare è strettamente legata sia al modello produttivo e di consumo sia alla riduzione degli sprechi e alla valorizzazione degli scarti. Nelle fasi a valle della filiera (distribuzione e consumo) si sviluppano i maggiori sprechi nelle economie avanzate ed è necessario attuare pratiche di prevenzione e riduzione seguendo la Food Recovery Hierarchy. Il tema degli sprechi lungo la filiera acquisisce una importanza ancora più significativa se si considera l’impatto sull’ambiente della filiera agroalimentare. I prodotti alimentari che vengono sprecati lungo tutta la filiera rappresentano emissioni di CO2 e consumi idrici inutili ed evitabili. La bioeconomia si conferma un pilastro del Green New Deal dell’Unione EuropeaLa competitività e la sostenibilità dell’Europa non possono prescindere da un cambiamento graduale ma radicale dei processi produttivi e di consumo. La filiera agroalimentare può dare un contributo rilevante: fertilità dei suoli, preservazione della biodiversità, tutela degli ecosistemi sono centrali per conseguire una filiera sostenibile. Ma parallelamente è necessario agire su riduzione degli sprechi e valorizzazione degli scarti in una logica di riutilizzo circolare. I rifiuti organici sono, infatti, una fonte importante di biomassa ma per poter essere utilizzati devono essere raccolti in modo differenziato e trattati in modo adeguato. La dotazione di impianti di trattamento e l’assetto normativo e regolamentare sono cruciali per garantire la chiusura del cerchio in modo sostenibile. L’Italia ha sviluppato buone pratiche ed esperienze innovative e in alcuni territori ha ottimizzato virtuosamente la raccolta differenziata, il riciclo e il riutilizzo dei biocomponenti in un’ottica circolare. Il sistema finanziario continuerà a dare un significativo contributo in questa direzione: la bioeconomia è uno dei settori chiave della regolamentazione da poco introdotta dalla Commissione Europea per la Finanza Sostenibile, che contiene precise indicazioni sulla priorità di utilizzo dei polimeri biobased, sulla gestione efficiente delle risorse in campo agricolo, nel ciclo idrico e per le biomasse.

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