mercoledì 7 febbraio 2018
Ecco cosa c'è dietro la crisi di Wall street degli ultimi giorni
Lavoro e prezzi: torna in auge la curva di Phillips
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L'ultimo crollo di Wall Street ci conferma che no, la curva inventata nel secondo Dopoguerra dall’ingegnere giramondo William Phillips non è ancora morta. La sua formula, per mezzo secolo, ha guidato l’azione delle banche centrali, regolando con un meccanismo quasi idraulico le politiche monetarie.

La curva descrive una relazione inversa tra lavoro e prezzi: più diminuisce la disoccupazione, più aumenta l’inflazione. Phillips aveva notato infatti che i salari salivano quando la disoccupazione scendeva e viceversa. Perfezionata negli anni Sessanta dai Nobel Samuelson e Solow, l’equazione algebrica è diventata lo scheletro dei modelli econometrici utilizzati per tenere a bada l’inflazione, compito fondamentale delle autorità monetarie e in particolare della Bce. La curva ha avuto un primo momento di appannamento negli anni Settanta, allorché al salire dell’inflazione la disoccupazione non calava, condizione che da allora chiamiamo "stagflazione". Il secondo appannamento la curva di Phillips l’ha conosciuto invece negli ultimissimi anni. Quando la disoccupazione negli Stati Uniti ha quasi toccato il minimo storico, senza essere accompagnata però da un aumento dell’inflazione salariale e quindi dei prezzi in generale. Ecco perché il ritorno alla normalità monetaria negli Stati Uniti è stato più volte rimandato. La vecchia curva non sembrava rispondere. Sembrava morta. Fino a venerdì scorso, quando sono stati diffusi i dati sul mercato del lavoro americano: 200mila nuovi posti a gennaio, disoccupazione inchiodata al 4,1%, il minimo da 8 anni, ma soprattutto salari in forte aumento (+2,9%), il più robusto dai tempi della recessione. Wall Street ha reagito con un tonfo. Accompagnato da un secondo tracollo, quello di lunedì. Il timore è infatti che, funzionando la curva di Phillipps, l’aumento dei salari porti un’inflazione da governare con la leva dei tassi, aumentando quindi il costo del denaro. Non a caso qualche giorno prima il rendimento dei titoli governativi decennali si è impennato.

Anche l’Europa dovrebbe ritrovare un livello di disoccupazione così basso – lo è già in Germania, anche se finora i salari sono rimasti piatti – da far ripartire le buste paga. Ma dovrebbe accadere solo il prossimo anno. Draghi ha comunque assicurato che la politica monetaria resterà accomodante a lungo. Negli Stati Uniti erano già previsti tre ritocchi ai tassi quest’anno: potrebbero diventare quattro. Ed è proprio quest’evenienza ad aver spaventato gli investitori. Una politica monetaria eccessivamente restrittiva rischia infatti di invertire il ciclo. E trasformare la ripresa in recessione. Trovare il giusto equilibrio non è facile. Sarà il compito del nuovo presidente Fed Jerome Powell. Per quest’anno, almeno. Poi toccherà alla Bce. A Mario Draghi, quindi, e a chi prenderà da lui, nell’ottobre del 2019, il testimone. Secondo un discreto numero di analisti, sarà proprio allora – e non quest’anno – che il rialzo dei tassi sulle due sponde dell’Atlantico, l’inflazione e la fine degli stimoli monetari potrebbero scatenare una vera tempesta perfetta e dunque una correzione del mercato molto più ampia di quella che si potrebbe registrare in questo scorcio d’inverno sui listini mondiali.

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