venerdì 9 novembre 2018
Un'azienda secolare, una dinastia imprenditoriale che resta tragicamente senza eredi e un'Italia che si vanta del "made in Italy" ma poi lascia che siano altri a usarlo per creare ricchezza
Il cremino, uno dei prodotti simbolo di Pernigotti (da Instagram)

Il cremino, uno dei prodotti simbolo di Pernigotti (da Instagram)

COMMENTA E CONDIVIDI

All’interno del marchio Pernigotti l’anno di fondazione dell’azienda, il 1860, è scritto bello grande. È una giusta trovata di marketing: quanti altri prodotti sugli scaffali dei nostri supermercati possono vantare più di un secolo e mezzo di tradizione? Solo che poi su quasi tutte le confezioni c’è scritto anche “Made in Tr”, dove Tr sta per Turchia. È una scritta piccola: il collegamento tra il cioccolato Pernigotti e Istanbul non è immediato, chi lo notasse potrebbe dubitare che l’azienda stia davvero onorando la sua secolare tradizione.

Purtroppo presto quei dubbi saranno sciolti, perché con la chiusura della fabbrica di Novi Ligure annunciata ai sindacati martedì, Pernigotti sarà solo il marchio italiano di un cioccolato straniero o, nel migliore dei casi, prodotto da qualche azienda italiana di sub-fornitura.

È un’altra fine triste di una grande storia di imprenditoria italiana. Dice la Treccani che la presenza a Novi Ligure dei commercianti Pernigotti è riscontrabile già dagli inizi del 1600. Sicuramente nell’800 la famiglia aveva il suo emporio con vetrina su quella che allora si chiamava piazza del Mercato, nel centro della città. L’azienda ha avuto una storia gloriosa, che inizia dall’orgoglio di potersi fregiare del titolo di fornitori della Real Casa e passa da tappe industriali importanti come l’alleanza con una rete nazionale di drogherie per distribuire il cioccolato in tutt’Italia, la produzione industriale dei gianduiotti già negli anni ’20 del Novecento, l’acquisizione dei torroni F.lli Sperlari nel 1935 e quella della cioccolateria torinese Streglio nel 1971.

C’è un momento tragico, nella storia della Pernigotti e di Stefano, classe 1922, che porta il nome del fondatore ed è il rappresentante della quarta generazione dei Pernigotti. Nel 1980 l’industriale che guida l’azienda da una quindicina d’anni è con la famiglia in Uruguay a visitare i parenti. Un camion che va contromano lungo una strada nei pressi di San José sbatte contro l’auto su cui stanno viaggiando i figli Paolo, 17 anni, e Lorenzo, 13. I ragazzi muoiono, la dinastia dei Pernigotti non avrà la sua quinta generazione.

Rimasto senza eredi diretti, Pernigotti nel 1995 vende l’azienda di famiglia e si dedica al sociale. Con la moglie Attilia Rivolta ha creato nel cuore di Brera, a Milano, un centro di accoglienza e formazione di stranieri che oggi si chiama Associazione San Marco 2000 - Comunità Attilia, Paolo e Lorenzo Pernigotti. L’imprenditore vende ma si preoccupa di lasciare l’azienda in buone mani. Quelle di un’altra antica famiglia imprenditoriale italiana, i siciliani Averna, quelli del celebre amaro. Funziona, almeno finché non si interrompe anche la storia imprenditoriale degli Averna. La famiglia dell’amaro nel 2013 vende Pernigotti a Sanset, divisione dolciaria di un conglomerato turco controllato dalla famiglia Toksöz che si occupa di farmaci, energia e dolci e poi, nel 2014, cede l’intero gruppo Averna alla Campari.

I turchi promettono di fare di Pernigotti, azienda da 75 milioni di euro di fatturato, un marchio sempre più internazionale. Presto però i sindacati notano che c’è qualcosa che non va. «Dopo qualche anno abbiamo visto che iniziavano a costruire stabilimenti per produrre dolci in Turchia. Ha una sua logica industriale: il Paese è il primo produttore mondiale di nocciole » racconta Enzo Medicina, segretario della Fai Cisl di Alessandria-Asti. Il risultato è che oggi il 70% della produzione a marchio Pernigotti è fatta in Turchia e solo il 30% in Italia.

Nel nostro Paese il gruppo Toksöz ha investito solo sulla parte commerciale mostrando una gestione caotica sul lato industriale: ha cambiato quattro amministratori delegati in quattro anni, ognuno mostrava il suo piano industriale e poi spariva. L’ultimo se n’è andato durante l’estate. «Noi lo avevamo incontrato a giugno, quando ancora ci rassicurava sulle strategie dell’azienda: i bilanci erano in perdita, con un rosso cumulato di 50 milioni di euro in 5 anni, ma c’erano sempre state ricapitalizzazioni e ci assicuravano che Novi era strategica. Dopo l’uscita dell’ultimo Ad abbiamo chiesto un incontro ai vertici aziendali e ci hanno ricevuti martedì, una volta terminata la produzione di torroni e dolci per il Natale» spiega Medicina.

Pernigotti ha chiesto la cassa integrazione per cessazione parziale di attività per i 100 dipendenti. Perderanno il posto anche altre 150 persone, tra interinali e lavoratori “terziarizzati”. La risposta dei sindacati è stata assemblea permanente e sciopero a oltranza. Il ministero dello Sviluppo economico ha convocato un tavolo per il prossimo giovedì, l’azienda si è gia mostrata inflessibile. Il fatto che i dirigenti abbiano chiarito che vuole mantenere la produzione in Italia, affidandola a gruppi esterni, ovviamente non è consolante. «Affidare una parte della produzione ad altre aziende italiane non cambia nulla. Il problema è l’abbandono di Novi Ligure» ribadisce Medicina. Pernigotti resterebbe solo un nome, un marchio utile a vendere come prodotto tradizionale e italiano un cioccolato altrimenti anonimo. Il Made in Italy di cui tanto ci vantiamo non vale molto se non si è capaci di fare in mondo che i suoi frutti siano la creazione di lavoro e di ricchezza in Italia.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI