sabato 2 novembre 2019
La ricercatrice piemontese lavora al Mit e collabora con la Nasa per rendere possibile la colonizzazione dello spazio. Ma anche l'insediamento umano in luoghi estremi sul nostro pianeta
Valentina Sumini mentre testa un suo prototipo di esoscheletro in assenza di gravità

Valentina Sumini mentre testa un suo prototipo di esoscheletro in assenza di gravità

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La prima volta che Jeffrey Hoffman, già astronauta dello Space Shuttle e ora professore di aeronautica e astronautica al Mit di Cambridge, Massachusetts, ha visto il suo progetto, gli si sono illuminati gli occhi e le ha detto: «Mi piace perché porti la natura in un luogo dove non c’è nulla». Cioè su Marte.

Anche alla Nasa è piaciuto quel progetto di una città spaziale ispirata a una foresta di sequoie che la 33enne Valentina Sumini, piemontese di Alessandria, da poco più di tre ricercatrice al Massachusetts Institute of Technology, ha ideato insieme con un altrettanto giovane team del Mit per permettere a una futura prima colonia umana di vivere e svilupparsi sul pianeta che affascina da sempre scienziati, scrittori, cineasti.

Il progetto, chiamato Redwood Forest, è costituito da una serie di bianchi padiglioni emisferici e da un sistema di gallerie sotterranee (sviluppate come le radici degli alberi) dalle quali passerà l’acqua necessaria alla vita degli abitanti – la città è studiata per ospitarne fino a diecimila – e delle specie vegetali che nasceranno sopra e sotto la terra, dentro ad un ambiente pressurizzato in cui troveranno posto anche cisterne balneabili, fontane, laghi e coltivazioni idroponiche

All’interno di queste ramificazioni, realizzate con un materiale locale, la regolite marziana, e grazie ad altri elementi che verranno estratti e riciclati in situ come, appunto, l’acqua ma anche il polietilene, i coloni vivranno in condizioni di assoluta sicurezza, protetti cioè dalle radiazioni cosmiche, dagli impatti con micro - meteoriti e da variazioni termiche eccessive. A rendere ciascun padiglione autosufficiente dal punto di vista energetico sarà un mix di energia proveniente dal sole e da fonti artificiali.

Due anni fa il progetto ha vinto l’ambito Mars City Design Prize, dedicato alle proposte di città più sostenibili su Marte, ma le soluzioni pensate dal team guidato dalla ricercatrice italiana – peraltro già premiata dalla Nasa per la sua idea di un orbiting space hotel di lusso con cui nel 2028 sostituire l’attuale Stazione spaziale internazionale – hanno l’ulteriore pregio di poter essere applicate anche sulla terra.

«La rete di tunnel multilivello, ad esempio, può permettere il passaggio di veicoli elettrici e diminuire così il traffico nelle grandi aree metropolitane; lo stesso habitat a padiglioni può consentire agli esseri umani di insediarsi in zone fino ad oggi invivibili come in prossimità di vulcani, nei deserti o nel circolo polare artico; la coltivazione idroponica sotto le città può risolvere il problema della mancanza di terreni adatti a questo scopo e ridurre il trasporto di verdura e frutta fresca dalle campagne ai centri urbani», spiega Sumini, arrivata al Mit con una laurea in Architettura al Politecnico di Torino, una in Ingegneria conseguita al Politecnico di Milano grazie all’Alta Scuola Politecnica e un dottorato con un’esperienza di studio all’Illinois Institute of Technology di Chicago.

Nonostante la nostalgia per l’Italia sia forte, i successi che ha raggiunto qui sono straordinari: ha vinto premi per il progetto della serra idroponica che, impacchettata, verrà spedita nella città spaziale e, sempre con il MIT e insieme con la European Space Agency e gli architetti dello studio internazionale Som sta lavorando alla realizzazione di un insediamento sulla Luna nel corso della spedizione del 2050.

«E pensare che ero arrivata qui per fare esclusivamente ricerca computazionale», dice, ridendo, «e i miei interessi, casomai, erano più indirizzati alla Luna piuttosto che a Marte perché li vedevo realizzabili in un tempo più breve. Poi, grazie alla competition sulla città marziana e ai suggerimenti di persone per me fondamentali come Jeffrey Hoffmann, l’astronauta Paolo Nespoli e i professori del MIT Caitlin Mueller, Hiroshi Ishii e Joe Paradiso, ho capito che cosa volevo fare da grande».

Tra un’innovazione e l’altra (l’ultima è un rivoluzionario esoscheletro dotato di una coda simile a quella dei cavallucci marini che, inserito in una speciale tuta, con il suo movimento potrà aiutare a stabilizzarsi non solo l’astronauta ma chiunque debba affrontare problemi di supporto legati al movimento e al posizionamento nello spazio) ha trovato pure il tempo di addestrarsi per una missione sulle pendici di un vulcano alle isole Hawaii, che partirà nel gennaio 2020 e si protrarrà per alcune settimane.

Valentina è infatti l’unica italiana nel gruppo di sei donne selezionate per la missione Hi-Seas Sensoria sul vulcano Mauna Loa, in un ambiente considerato molto simile a quello marziano. A 3mila metri di quota e in una condizione di (quasi) totale isolamento – con ritmi di vita, dunque, "spaziali" – la ricercatrice testerà le prestazioni di uno spazio virtuale che consenta ai futuri astronauti di sopportare il disagio prodotto dal distacco spazio-temporale dalla Terra e, inoltre, studierà gli aspetti psicologici legati alla permanenza in spazi isolati e disorientanti quale è, appunto, il pianeta rosso.

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