venerdì 7 maggio 2010
S&P, Moody’s e Fitch, le tre «sorelle» che danno i voti alle obbligazioni hanno il potere di indirizzare i flussi di denaro e decidere le sorti di un Paese. La valutazione dei titoli di Stati e società private è in mano a un oligopolio controllato da grandi fondi comuni e gruppi editoriali.
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Sono solo tre, Moody’s, Standard & Poor e Fitch, ma negli anni si sono spartite il 96% del reame del rating: insieme distribuiscono pagelle, danno voti sulla solvibilità dei debiti sovrani, innalzano o declassano nazioni a seconda che quelle "A" abbiano o non abbiano il segno più, per non parlare della fatidica "B", anticamera della bocciatura di un titolo che potrebbe non risorgere più, fino all’abisso del junk bond, l’obbligazione spazzatura. Il loro giudizio sembra insindacabile, la loro influenza è somma, la loro potenza quasi inscalfibile.Ma chi sono e da dove vengono queste tre sorelle che arbitrano i destini e le fortune di mezzo mondo?Cominciamo a dire che le tre agenzie non sono enti morali né associazioni a scopo benefico, bensì si tratta di società private a scopo di lucro. La prima, quella di James Moody, nasce nel 1909 come guida alle oltre duecento compagnie ferroviarie americane: ne passa al setaccio i bilanci, ne studia gli investimenti e dà loro un voto basato sull’affidabilità. Un baedeker utilissimo, immediatamente imitato sette anni dopo dalla Standard Company (che in seguito si fonderà con la Poor’s) e poco più tardi dalla Fitch.Dopo la crisi del ’29 il rating sulle obbligazioni diventa obbligatorio: le banche cioè possono acquistare solo obbligazioni certificate dalle tre agenzie. È l’inizio di un’ascesa che non si è mai più arrestata: da decenni, chiunque voglia piazzare sul mercato un’obbligazione per autofinanziarsi (un’azienda, una banca, una compagnia di assicurazione, un fondo comune, uno Stato) deve cercare di strappare un voto positivo alle tre agenzie; senza quel voto, è sostanzialmente impossibile raccogliere denaro sul mercato. Il loro verdetto ha effetti immediati, a volte pesantisissimi: quando Moody’s o Fitch, o Standard & Poor abbassano il rating di aziende o soggetti pubblici particolarmente indebitati (come è stato il caso della Grecia, o del Portogallo) si ha un istantaneo rialzo degli interessi applicati ai prestiti in corso e un conseguente aumento degli oneri finanziari. A volte il debitore è indotto perfino a cedere beni di sua proprietà a qualsiasi prezzo pur di evitare un peggioramento del rating, così come sotto una certa soglia di rischio le banche ed altri soggetti sono obbligati a liberarsi di certe obbligazioni, anche a costo di svenderle. Enorme, come si può capire, è il potere arbitrale di queste agenzie.La domanda a questo punto è lecita: chi è proprietario e chi paga le agenzie di rating? Il loro capitale azionario è in mano a fondi di investimento o emanazioni di banche d’affari, ma a remunerarle – tenetevi forte – sono gli stessi soggetti (aziende, banche, fondi, Stati) che aspirano a immettere obbligazioni sul mercato finanziario. Un po’ come se pagassimo la commissione d’esame che deve giudicarci. Al di là del palese conflitto di interessi – che potrebbe restare nella migliore delle ipotesi nel campo della pura teoria – vi è l’effetto "bolla", cui le tre agenzie sembrano a loro volta soggette: quando le Borse vanno a gonfie vele, quando tutti comprano e si indebitano, le tre agenzie tendono a regalare voti alti a tutti; quando la tendenza si inverte, declassano senza pietà.Ma accade anche il contrario, ovvero il sospetto ritardo nell’abbassare il rating, o peggio la manifesta complicità – su questo sta indagando il Senato americano – nel dare pagelle eccellenti a titoli spazzatura truffando gli investitori a beneficio delle banche d’affari.Ma l’effetto forse più letale che un verdetto negativo da parte di queste agenzie può produrre è quello che si riverbera sui cambi. È bastato nei giorni scorsi un declassamento del debito pubblico spagnolo per far flettere l’euro e un successivo martellamento sui debiti greco e portoghese per spingerlo sotto la soglia di 1,27, il livello più basso degli ultimi due anni. Facile immaginare che in questo braccio di ferro fra dollaro ed euro le agenzie di rating abbiano (o per lo meno possano avere) un ruolo decisivo. Ma con quale trasparenza? Con quali intenzioni? E soprattutto con quali controlli? Possiamo credere che società che hanno come azionista il finanziere Warren Buffett siano neutrali nei confronti dell’euro? O di fondi concorrenti? O di gruppi bancari non americani? A Bruxelles circola l’ipotesi (in parte caldeggiata dal cancelliere Merkel) di dotarsi di un’agenzia di rating europea per sottrarsi dall’abbraccio mortale delle tre sorelle. Ma sarebbe essa stessa al riparo dalle pressioni degli Stati membri?
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