Le aziende che chiedono all'Ue di non cedere sulla sostenibilità
di Cinzia Arena
Lunedì al Parlamento si vota sull'allentamento delle misure della direttiva su impegni delle imprese su clima e ambiente. Centodieci imprese chiedono chiarezza

Le aziende ci credono (e continuano ad investire) ma temono che in Europa l’entusiasmo per il Green deal sia già svanito. Gli impegni presi in passato, che hanno fatto della Ue un leader globale sul tema del clima e della transizione verde, rischiano di venire annacquati. Qualche esempio? La settimana scorsa alla New York Climate week, mentre Trump negava l’esistenza stessa del cambiamento climatico, l’Europa non ha presentato i propri impegni formali quinquennali ma solo una dichiarazione d’intenti, mentre il regolamento sulla deforestazione è stato nuovamente prorogato. Per non parlare dei tentennamenti sullo stop ai motori endotermici previsto nel 2035.
In questo quadro di disimpegno si inserisce la scelta di semplificare (che in realtà in questo caso significa ridurre) le norme sullo sviluppo, l’implementazione e la divulgazione dei Piani di transizione climatica per le aziende (chiamate ad allineare il loro modello di business agli obiettivi dell’accordo di Parigi sul riscaldamento globale), allargando pericolosamente quelle maglie che erano state tracciate appena qualche anno fa. Dopo il voto in Commissione Juri (Affari giuridici), domani toccherà al Parlamento europeo in seduta plenaria dire la propria sul pacchetto Omnibus, che prevede appunto modifiche alle due direttive sulla rendicontazione della sostenibilità. La palla passerà poi al Trilogo che dovrà approvare tutto entro il prossimo 8 dicembre. Centodieci aziende italiane ed europee, coordinate da Nativa che ha redatto il position paper insieme a Fondazione per lo Sviluppo (insieme hanno dato vita nel 2022 al gruppo di lavoro CO2alizione), hanno deciso di passare all’azione scrivendo una lettera appello ai parlamentari europei, chiedendo un quadro chiaro per i Piani di transizione climatica e politiche mirate a sostenere le aziende che vogliono impegnarsi.
«Abbiamo iniziato a lavorare alla lettera già nel mese di marzo in vista dell’iter parlamentare delle due direttive – spiega Elena Basile, evolution guide di Nativa e coordinatrice di CO2alizione –, anche se la commissione non ha accolto le nostre richieste il messaggio è arrivato forte e chiaro. Le imprese vogliono fare una transizione reale e chiedono politiche di supporto e risorse finanziare. I piani di transizione climatica sono uno strumento di resilienza e tutelano la competitività. Restringere il campo dell’obbligatorietà alle grandi aziende, in pratica solo alle multinazionali, taglia fuori tutte quelle realtà che si sono impegnate in questi anni. Il rischio è che i report rimangano un’operazione di facciata, un obbligo di legge». Tra i nomi più noti segnaliamo Chiesi, Faac, Kerakoll, Florim, Mutti, Casillo, Bureau Veritas Antica Erboristeria, Capua 1880 e Sardex.
La nuova proposta, approvata in commissione Juri, prevede la riduzione del perimetro di applicazione della Csrd (Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale già operativa anche in Italia) alle aziende con oltre mille dipendenti e fatturato annuo superiore a 450 milioni di euro (vale a dire il 90% in meno rispetto alla direttiva originale che è entrata in vigore in Italia l’anno scorso, si parla di appena 4.700 aziende rispetto alle 47mila coinvolte al momento) e della Csddd (Direttiva sulla due diligence in materia di sostenibilità) che prevede l’obbligo, ancora non operativo, di adottare un piano di Transizione climatica a quelle con oltre 5mila dipendenti e 1,5 miliardi di fatturato annuo (70% in meno rispetto alla direttiva originaria, in pratica 2mila realtà contro le 7mila del progetto originale).
In generale la riduzione del perimetro di interesse determina che saranno molte meno le aziende soggette a questi obblighi, tutte le altre potranno procedere in maniera volontaria. Le aziende firmatarie rivendicano norme chiare e la possibilità di accedere a finanziamenti per mettere a terra quella transizione che altrimenti rischia di rimanere confinata nell’ambito dei “buoni propositi”.
«Come aziende europee impegnate per la resilienza economica e la transizione verso la neutralità climatica – è l’incipit della lettera – vi indirizziamo questa lettera in un momento cruciale per il futuro imprenditoriale europeo. Le attuali politiche rischiano infatti di portarci verso un incremento delle temperature globali di tre gradi, con gravi conseguenze per natura, persone ed economia». Indebolire o eliminare l’obbligo di implementare i Pianti di transizione climatica comprometterebbe secondo le aziende l’accesso ad investimenti sostenibili e danneggerebbe la concorrenza leale. «I Ptc non sono solo un esercizio di compliance – aggiungono le 110 imprese – : ci permettono di anticipare e mitigare i rischi finanziari legati al clima, di adottare in modo efficace le nostre strategie aziendali e di evitare costi imprevisti». La Bce, ricordano i firmatari dell’appello, sostiene che richiedere solo l’adozione dei piani senza una reale implementazione comporta «rischi di ambiguità, greenwashing e allocazione inefficace dei capitali». Difficile al momento che l’impostazione del testo approvato in Commissione possa venire modificata in corsa. «Il clima politico è cambiato con il rinnovo del Parlamento europeo – conclude Basile –. E anche a livello mondiale si assiste a vistosi passi indietro sul fronte della lotta al cambiamento climatico. Il rischio è che le aziende che vogliono impegnarsi sentano questa mancanza di appoggio, proprio per questo abbiamo deciso di unire le nostre voci».
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