I due dogmi dell’ingiustizia che normalizzano le diseguaglianze

September 30, 2025
I due dogmi dell’ingiustizia che normalizzano le diseguaglianze
Icp |
Se la diseguaglianza aumenta non a causa della mancanza di risorse, né per una scarsa conoscenza di quel che sarebbe possibile fare, a cosa essa ultimamente si deve e soprattutto perché non suscita tra la gente moti di ripulsa nei confronti di tale stato di cose? La risposta che giudichiamo convincente è che ciò sia dovuto alla continua credenza in due dogmi dell’ingiustizia. Il primo afferma che la società nel suo insieme verrebbe avvantaggiata se ciascun individuo agisse per il proprio interesse. Il che è doppiamente falso. In primo luogo, perché l’argomento smithiano della mano invisibile postula che i mercati siano vicini all’ideale della libera concorrenza, in cui non vi sono né monopoli né oligopoli, né asimmetrie informative. Ma tutti sanno che le condizioni per avere mercati di concorrenza perfetta non sono mai state soddisfatte nella realtà e mai lo saranno. In secondo luogo, perché le persone hanno talenti e abilità diverse. Ne consegue che se le regole del gioco economico vengono forgiate in modo da favorire, poniamo, i comportamenti opportunistici, predatori, irresponsabili, accadrà che i soggetti la cui costituzione disposizionale è così caratterizzata finiranno per schiacciare gli altri. Ciò significa che non esistono poveri per natura, ma per condizioni sociali; per il modo cioè in cui vengono disegnate nei vari parlamenti le istituzioni economiche.
L’altro dogma dell’ingiustizia è credere che l’elitarismo vada incoraggiato perché genera efficienza, nel senso che il benessere dei più cresce maggiormente promuovendo le abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché è a costoro che si deve il progresso della società. L’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è dunque qualcosa non solamente di naturale, ma anche necessario se si vuole far progredire la società. Il che è un’autentica fake truth (verità ingannevole), dovuta al riprovevole insegnamento di darwinisti sociali quali François Galton e Thomas Huxley. La conseguenza è che da alcuni decenni è in atto nei Paesi dell’Occidente avanzato, una distribuzione dei redditi verso l’alto – il trickle up, che ha preso il posto del trickle down effect – che il premio Nobel Angus Deaton ha denominato la «redistribuzione dello sceriffo di Nottingham: Robin Hood portava via ai ricchi per dare ai poveri, lo sceriffo prendeva dai poveri per dare ai ricchi».
Che dire della meritocrazia, termine introdotto per primo dal sociologo inglese Michael Young nel 1958, e poi andato via via crescendo di rilevanza nel dibattito pubblico? Meritocrazia è il “potere del merito”, cioè il principio di organizzazione sociale che fonda ogni forma di promozione e di assegnazione di potere sul merito. Il merito è la risultante di due componenti: il talento che ciascuno riceve dalla lotteria naturale e l’impegno profuso nello svolgimento di ciò cui ci si applica. Quello meritocratico, secondo il giudizio del suo stesso inventore, non può essere preso come criterio per la distribuzione delle risorse di potere, sia economico sia politico. Young fu talmente persuaso della pericolosità di tale principio che arrivò a pubblicare, nel 2001, un articolo in cui lamentò il fatto che il suo saggio del 1958 fosse stato interpretato come un elogio anziché come critica forte a forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica, forme che, alla lunga, portano all’eutanasia del principio democratico.
Ben diversa è la meritorietà, che è il principio di organizzazione sociale basato sul criterio del merito e non già sul potere del merito. È certo giusto che chi si impegna di più ottenga di più, ma non tanto di più da porlo in grado di influenzare la formazione di regole del gioco, sia economico sia politico, che valgano poi ad aumentare le distanze. In sostanza, occorre evitare che le differenze di ricchezza associate al merito si traducano in differenze di potere decisionale, quanto a dire che il problema serio con la nozione di meritocrazia non sta nel merere (guadagnare) ma nel kratos (potere). La meritorietà è la meritocrazia depurata della sua deriva antidemocratica. Per l’ideologia meritocratica, se un individuo cade nella povertà è “colpa” sua: di qui l’aporofobia, cioè, come abbiamo visto, il disprezzo del povero e del diverso oggi dilagante.
Come darsi conto della crescente insistenza nel corso degli ultimi tempi sul principio meritocratico? Per rispondere, è opportuno fare parola dell’inversione del nesso di dipendenza tra mercato e democrazia quale si è venuto realizzando a partire dall’affermazione della globalizzazione e della terza rivoluzione culturale. Se fino ad allora era stata l’economia a seguire la politica, a far tempo dagli anni ottanta, è stata la politica a porsi al servizio dell’economia. Ciò ha fatto credere che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’irrobustimento del principio democratico. Due le implicazioni principali che ne sono derivate.
La prima è l’idea, inaccettabile, secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun filtro etico perché già conterrebbe al proprio interno i principi morali sufficienti alla sua legittimazione e perfino giustificazione. Ma così non è, come si è detto. La seconda implicazione è che se la democrazia – che è un bene fragile, come insegnava Aristotele – si degrada, può accadere che la società non riesca a progredire non tanto per qualche difetto dei meccanismi del mercato, quanto piuttosto per un deficit di democrazia. È ormai di dominio comune il fatto che non può esserci sviluppo sostenibile di lungo termine al di fuori di un contesto realmente democratico.
Dal combinato disposto delle due implicazioni si è tratta la conclusione che un assetto politico è accettabile se è funzionale all’efficienza, vale a dire se è in grado di governare gli interessi delle diverse classi sociali. Una volta elevata l’efficienza, e quindi la crescita economica, a criterio di verità dell’agire politico è evidente che la meritocrazia diventi lo slogan da sbandierare per giustificare la svolta di cui si è dianzi detto.
Quali ragioni morali vengono usualmente avanzate dal mainstream per contrastare l’aumento delle disuguaglianze? Per l’etica utilitaristica, la risposta è che, dato che il fine da perseguire è la massimizzazione dell’utilità totale della società, occorre trasferire reddito dal ricco al povero, perché la diminuzione di utilità del primo è inferiore all’aumento di utilità del secondo. Ma, a ben riflettere, questa è tutt’al più una ragione in difesa dell’attuazione di politiche che mitighino gli effetti delle diseguaglianze e non già di politiche che aggrediscano la disuguaglianza in quanto tale. D’altro canto, se si abbracciano le posizioni dell’individualismo libertario, si ha che la difesa della libertà è sempre prioritaria rispetto alla difesa dell’uguaglianza e pertanto l’insistenza su politiche redistributive andrebbe spiegata solo con l’invidia di chi non ha nei confronti di chi ha. Ben diverso è l’argomento avanzato da chi si riconosce nell’etica delle virtù. Per l’economista civile, le disuguaglianze danno a chi più ha un potere di controllo sulla vita di chi meno ha, il che contraddice il principio di autonomia personale. Ad esempio, chi controlla da posizioni mono-oligopolistiche i mezzi di comunicazione influisce sui modi in cui le persone “vedono” sé stesse e interpretano la società. Ne deriva che in forza del principio secondo cui ciascun essere umano ha un valore morale indipendentemente dalle sue connotazioni sociali, non si può non concludere che le diseguaglianze violano quel principio in modo inaccettabile.

Questo testo è tratto da “Introduzione all’economia civile. Tra il già-fatto e il non-ancora” di Luigino Bruni e Stefano Zamagni, pubblicato da Città Nuova e in uscita il prossimo 10 ottobre.

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