venerdì 20 ottobre 2017
I formaggi campioni del Made in Italy contavano di raddoppiare le vendite grazie al libero scambio. Ma nell'assegnare le quote di import aggiuntivo Ottawa ha lasciato fuori i loro importatori
Un addetto nel centro di stagionatura di Parmigiano Reggiano del Credito Emiliano a Montecavolo, in provincia di Reggio Emilia

Un addetto nel centro di stagionatura di Parmigiano Reggiano del Credito Emiliano a Montecavolo, in provincia di Reggio Emilia

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Per il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano, cioè due campioni dell’export alimentare italiano, l'accordo di libero scambio con il Canada è partito malissimo. L’intesa, il famigerato Ceta, è entrata in vigore in via transitoria un mese fa ma le vendite dei due formaggi italiani stanno addirittura rallentando. «Il 2017 stava andando bene, un mese abbiamo segnato una crescita annua anche del 20%. Gli importatori cercavano di raggiungere rapidamente le quote annuali contando che poi, grazie all’avvio dell’accordo di libero scambio, sarebbero aumentate» racconta Stefano Berni, direttore generale del Consorzio del Grana Padano.

Invece il Canada ha fatto il furbo. Su pressione dell’industria zootecnica e alimentare canadese il governo di Justin Trudeau ha assegnato la quasi totalità delle 16mila tonnellate di formaggio aggiuntive che in base all’intesa commerciale deve importare dall’Europa alle associazioni dei produttori di latte canadesi e a quelle dei dettaglianti. In questo modo le nuove quote di importazioni sono utilizzate per comprare dall’Europa formaggi di prezzo medio-basso, prodotti come il gouda olandese o simili, che anche dopo tutti i costi di trasporto hanno prezzi molto bassi rispetto a simili formaggi canadesi, molto costosi perché in Nordamerica il latte è più caro che in Europa.

Agli storici importatori dei formaggi di pregio italiani o francesi, il cui lavoro dà ovviamente fastidio alla "fascia alta" della produzione casearia canadese, non è andato nulla delle nuove quote aggiuntive. I Consorzi del Grana e del Parmigiano, che già esportano circa 100mila forme all’anno in Canada e contavano sul Ceta per raddoppiare l’export nel giro di 5-6 anni e riprendersi anche dalla "botta" dell’embargo alla Russia, sono furenti. Se il governo canadese non cambia atteggiamento la crescita nei prossimi anni sarà molto più modesta, se va bene si arriverà a un +15%.

«Il governo canadese assegna le quote arbitrariamente, il Ceta glielo consente. A Bruxelles avevamo fatto presente questo rischio e abbiamo discusso per mesi della quota che sarebbe toccata ai nostri interlocutori tradizionali. Si parlava di un 60%, a noi sarebbe andato benissimo anche un 40-50%. Il commissario europeo all’Agricoltura, Phil Hogan, ci aveva tranquillizzati. Invece il Canada favorisce l’industria nazionale e non rispetta gli impegni morali e le intenzioni che erano alla base dell’intesa commerciale. Immagino che lo stesso Hogan sia molto arrabbiato» spiega Berni.

La speranza è che la Commissione europea, su cui i produttori italiani e francesi stanno facendo pressione, ottenga un cambio di atteggiamento dai canadesi. Le quote di importazioni 2017-2018 sono già andate, ma dal 2019 in avanti le assegnazioni dovranno essere diverse. «Altrimenti – conclude Berni – questo accordo che abbiamo difeso non solo non ci serve, ma addirittura ci danneggia».

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