Ungheria, i sacerdoti rom si raccontano
di Andrea Galli
Un libro indaga per la prima volta le vocazioni gitane

Orsós Zoltán, 47 anni, è parroco di Letenye, un paese di 4mila anime nell’estremo ovest dell’Ungheria, diocesi di Szombathely. È di origine beás, un sottogruppo del popolo rom che non parla la lingua romani, ma un dialetto rumeno arcaico. La sua storia personale è di quelle che scuotono. Nasce a Lovászi, poco distante da dove ora vive, in una famiglia poverissima: madre amorevole, ma non con otto figli che spesso non riesce a sfamare per giorni, padre alcolizzato e assente. Il contesto sociale è degradante. «La violenza e la brutalità facevano parte della nostra quotidianità» racconta. Una sorella viene abusata sessualmente. Un giorno, quando Orsós è in prima elementare, i servizi sociali intervengono. «Stavamo andando a scuola e inaspettatamente – non abbiamo nemmeno potuto salutare i nostri genitori – una Barkas [un furgone prodotto nell’ex Germania est ndr] è venuto a prendere me e i miei fratelli. Ancora oggi non sappiamo chi abbia denunciato la cosa alle autorità. Probabilmente è stato qualcuno che ha visto le condizioni in cui vivevamo». Orsós viene portato in un orfanotrofio, separato dai fratelli. Uno strappo che si rivelerà salvifico ma durissimo, tra difficoltà a integrarsi con gli altri ospiti e un senso lacerante di abbandono. « Quando vedevo una donna, le correvo incontro e le chiedevo: “Vuoi essere la mia mamma?”. Piangevo tanto e il personale dell’orfanotrofio cercava di consolarmi. Io dicevo: “Va bene, smetterò di piangere se porterete qui la mia mamma”. Ora so quanto mi sarebbe stato d’aiuto se avessi conosciuto la nostra Madre Celeste Maria, se fossi stato vicino a Dio, ma non avevo ancora quel dono». Dopo l’orfanotrofio Orsós viene dato in affido a una famiglia di agricoltori, che gli insegnano a lavorare la terra e gli permettono di continuare gli studi. Sogna di diventare un giudice per condannare i violentatori di sua sorella. L’incontro con la fede arriva verso la fine delle scuole superiori, quando un religioso carmelitano che viene invitato a parlare a scuola nota quel ragazzo dalla pelle scura e il suo sguardo che è un misto di rabbia e sofferenza. Lo invita a un colloquio in convento. «Andai e mi parlò in modo così bello della misericordia e dell’amore di Dio che Dio mi tolse il desiderio di vendetta che portavo dentro – ricorda Orsós –. Quella fu la prima volta nella mia vita che sentii il bisogno di perdonare. Ho perdonato i miei genitori, il mio ambiente. Ho perdonato per non aver avuto un’infanzia e una vita normale. Ho perdonato tutti. Quando finì il colloquio il carmelitano mi disse: “Sì, Dio vuole davvero che tu sia un giudice, ma nel confessionale, per dispensare la sua misericordia”. All’epoca non mi resi bene conto di ciò che mi era successo con quell’incontro. Mi ritrovai a passare sempre più tempo in chiesa, sentivo che per Dio la mia vita aveva una scopo e avvertii la chiamata a diventare prete. Quando a scuola lo dissi ai mi compagni tutti rimasero scioccati. Un insegnante mi chiamò in corridoio e disse che secondo lui ero fuori di testa... Anche altri insegnanti cercarono di dissuadermi, ma più ci provavano, più sentivo che quella era la mia strada».
Orsós Zoltán ha raccontato questi e molti altri scampoli della sua vita in un libro uscito alla fine del 2024 in Ungheria dal titolo “Piangere con chi piange, ridere con chi ride. Storie di formazione di sacerdoti gitani” (Sírókkal sírni, nevetökkel nevetni – Cigány papok növekedéstörténetei). A firmarlo sono due ricercatori dell’Istituto universitario cattolico Apor Vilmos di Vác – che edita anche il volume – Iván Báder e Nikoletta Mándi, che lavorano nel dipartimento di Teologia, scienze sociali e romanologia dell’istituto. Il primo è di etnia rom, la seconda no. Insieme hanno realizzato sei interviste, quattro a sacerdoti e due a seminaristi ungheresi rom. È il primo libro a tentare uno scavo in profondità in una realtà poco indagata – anche perché numericamente esigua – ma di grande significato dal punto di vista culturale e pastorale. Perché se sono pochi i sacerdoti rom, non sono pochi i rom cattolici in Ungheria, il cui numero secondo i due autori si aggira attorno ai 155mila. Quello che esce è un affresco fatto di colori molto diversi fra loro, ma con alcuni tratti ricorrenti: il legame viscerale con il proprio popolo, il confronto con i pregiudizi anche dentro il mondo ecclesiale, le esperienze di povertà o emarginazione, la difficoltà a liberarsi da dinamiche di clan che soffocano le aspirazioni a crescere. «Purtroppo, le comunità rom hanno anche una forza repressiva e negativa – spiega nel libro Balogh Győző János, primo sacerdote rom della Chiesa greco-cattolica ungherese – ad esempio spesso mi è stato fatto credere che non ne ero capace, che non sarei mai diventato un sacerdote. Con questo vento contrario ho dovuto lottare molto per arrivare a questo risultato».
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