Da Capra a Benigni, ecco i film del cuore di Leone XIV
In vista dell'udienza con il mondo del cinema del 15 novembre il Papa ha fatto sapere quali sono i film che preferisce. Spiccano "La vita è meravigliosa", "Tutti insieme appassionatamente", "Gente comune" e "La vita è bella"

Sabato 15 novembre alle 11 presso il Palazzo apostolico Leone XIV riceverà in udienza il mondo del cinema. Nell’anno del Giubileo, il Papa ha espresso il desiderio di approfondire il dialogo con questo mondo e, in particolare, con attori e registi, esplorando le possibilità che la creatività artistica offre alla missione della Chiesa e alla promozione dei valori umani. L’incontro è promosso dal Dicastero per la cultura e l’educazione in collaborazione con il Dicastero per la comunicazione e i Musei Vaticani, sulla scia degli appuntamenti dedicati alle arti figurative, all’umorismo e in continuità con il Giubileo degli artisti e del mondo della cultura, celebrato nel febbraio scorso. Tra gli artisti ricevuti in udienza ci saranno, tra gli altri, Marco Bellocchio, Monica Bellucci, Raoul Bova, Sergio Castellitto, Liliana Cavani, Maria Grazia Cucinotta, Cristian De Sica, Matteo Garrone, Ferzan Ozpetek, Stefania Sandrelli e Pupi Avati.
Leone XIV non ha esitato a rispondere alla domanda su quali siano i quattro film che preferisce in assoluto. Lo ha fatto in vista del suo incontro con attori e registi del prossimo 15 novembre, organizzato dal Dicastero per la cultura e l’educazione della Santa Sede in collaborazione col Dicastero per la comunicazione e i Musei Vaticani. Anche il suo predecessore, Francesco, non aveva mai fatto mistero dei suoi film più amati: La strada di Fellini, Il pranzo di Babette di Axel, Rapsodia d’agosto di Kurosawa, Roma città aperta di Rossellini. E il fatto che i papi facciano la short list dei film più amati non è irrilevante. Il Pontefice comunica i suoi in un brevissimo video, tessendo un filo invisibile che unisce La vita è meravigliosa (1946), Tutti insieme appassionatamente (1965), Gente comune (1980) e La vita è bella (1997). Un filo che attraversa mezzo secolo di cinema occidentale e tiene insieme la commedia natalizia di Frank Capra, il musical perfetto di Robert Wise, il dramma introspettivo di Robert Redford e la favola tragica di Roberto Benigni.
Quando George Bailey (James Stewart) si affaccia dal ponte, deciso a gettarsi nel fiume, La vita è meravigliosa sembra avvicinarsi al buio più profondo del sogno americano. Capra, regista italoamericano che aveva già raccontato l’America del New Deal con ottimismo civico, qui mette in scena la crisi morale dell’individuo di fronte a un mondo dominato dal denaro. Il film è del 1946, ma sembra parlare già dell’America del dopoguerra, dove il benessere economico rischia di soffocare la solidarietà. L’angelo Clarence salva George mostrandogli com’è il mondo senza di lui. È un gesto di immaginazione: l’umanità si rivela nella possibilità del suo annullamento. Capra fa cinema teologico con discrezione. L’angelo serve a svelare l’intreccio invisibile che tiene insieme gli esseri umani. La vita è meravigliosa è un film sull’effetto etico dell’empatia. Il suo messaggio – «nessun uomo è un fallimento che abbia amici» – resta una delle frasi più radicali mai pronunciate in un film americano, tra quelle che per Leone XIV più contano. Vent’anni dopo, Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music) sembra, a prima vista, un’evasione totale. Ma sotto la superficie dolce del musical, Robert Wise mette in scena una resistenza civile e spirituale. Maria (Julie Andrews) non è una semplice istitutrice che canta tra i monti: è un personaggio che sceglie la gioia come atto politico. Ambientato nell’Austria che si piega all’Anschluss, il film contrappone il canto alla marcia, la musica alla disciplina. I numeri musicali non sono decorativi: sono gesti di libertà collettiva, strumenti di un’educazione sentimentale che restituisce umanità a chi l’ha perduta. Nella scena finale, la famiglia Von Trapp attraversa le montagne in fuga dal nazismo – un’immagine che riecheggia, per contrasto, il ritorno alla vita di George Bailey. Wise, come Capra, crede nella potenza morale della gentilezza, ma la trasforma in canto. La sua estetica è quella della grazia: la bontà non come dovere, ma come armonia che disarma la violenza. In un’epoca di Guerra Fredda e di consumo di massa, Tutti insieme appassionatamente offre una nostalgia consapevole di un mondo in cui cantare insieme poteva ancora cambiare qualcosa.
Con Gente comune (Ordinary People), Robert Redford rovescia la prospettiva: la bontà non basta più. Siamo nell’America del 1980, quella del disincanto post-Vietnam e della psicoanalisi domestica. La famiglia Jarrett, agiata e rispettabile, è distrutta dalla morte del figlio maggiore e dal senso di colpa del sopravvissuto. Redford dirige con un rigore quasi bergmaniano. Il suo è un film sulla fragilità dell’amore in un mondo che non sa più perdonarsi. Se Capra celebrava la comunità e Wise la coralità, Redford filma il silenzio tra i personaggi: il vuoto come nuovo linguaggio. La madre (Mary Tyler Moore) non riesce a piangere, il padre (Donald Sutherland) non riesce a capire, il figlio (Timothy Hutton) non riesce a vivere. La “gente comune” del titolo è il rovescio della “vita meravigliosa” di Capra: il sogno americano si è chiuso su sé stesso. Eppure, proprio nella sua durezza, Redford non rinuncia a una tenue possibilità di redenzione. Non è più un miracolo, ma un atto di parola: quando il padre finalmente abbraccia il figlio, il silenzio si rompe. L’amore, se ancora esiste, è un gesto di verità. La vita è bella (1997) è il ritorno della bontà nel secolo del male. Benigni osa l’impensabile: raccontare la Shoah come una favola. Ma non per negare il dolore, bensì per salvarne la dimensione umana. Guido Orefice, ebreo toscano deportato con il figlio, costruisce un gioco per nascondere l’orrore. L’ironia diventa l’ultimo baluardo dell’amore paterno. Il film fu accusato, da alcuni, di sentimentalismo. Ma la sua potenza sta proprio nel paradosso: Benigni unisce il clown e il martire, l’innocente e il testimone. Come Capra e Wise, crede nella bontà come forza sovversiva; come Redford, sa che la bontà da sola non salva. Ciò che salva è la capacità di dare senso al dolore, di trasformarlo in linguaggio condiviso. La vita è bella è, in fondo, un film sulla creazione artistica come gesto di sopravvivenza: l’immaginazione è l’unico modo di restare umani in un sistema che disumanizza.
Questi quattro film amati da Leone XIV – diversi per tono, epoca e stile – compongono una sorta di tetralogia della grazia. In ognuno di essi la bontà appare fragile, ridicola, quasi anacronistica. Eppure, proprio per questo, è rivoluzionaria. George Bailey, Maria von Trapp, Conrad Jarrett e Guido Orefice sono l’espressione di quella che Francesco ha chiamato «la classe media della santità»: persone ordinarie che scelgono, contro ogni evidenza, di credere ancora nella possibilità del bene. Il cinema, in questi casi, diventa una forma di resistenza spirituale. Capra lo fa attraverso la comunità, Wise attraverso la musica, Redford attraverso la vulnerabilità, Benigni attraverso la fantasia. Tutti, però, parlano dello stesso miracolo: quello di chi, pur sapendo che il mondo è ingiusto, decide di restare buono. Leone XIV riconosce in questi film una lezione che oggi, nell’epoca del cinismo sistemico e dell’ironia come difesa, suona quasi sovversiva. Sarà il caso di rivederli, uno dopo l’altro, magari per riscoprire proprio con George Bailey, nel suo viaggio notturno, che in questi tempi di apocalissi annunciate, la vita è meravigliosa: non perché sia priva di dolore, ma perché, nonostante tutto, qualcuno sceglie di restare umano.
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