domenica 14 febbraio 2021
Il cardinale Betori: Francesco non ha chiesto alla Chiesa italiana un’assemblea, con voti a maggioranza Vuole che ci mettiamo in movimento avviando processi
Betori con papa Francesco

Betori con papa Francesco - .

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Le parole pronunciate dal Papa due settimane fa a conclusione del suo discorso per i 60 anni dell’Ufficio catechistico nazionale hanno messo in movimento molte riflessioni e domande sul senso del messaggio – che riprendeva esplicitamente quanto Francesco disse al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze il 10 novembre 2015 – e su cosa significhi operativamente. «Dopo cinque anni – ha detto il Papa – la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Cosa ci sia dentro queste parole può aiutarci a capirlo meglio il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, che ospitò l’evento ecclesiale e che sul celebre discorso del Papa alla Chiesa italiana in Santa Maria del Fiore sta impegnando la sua arcidiocesi da tre anni.

Eminenza, il Papa ha detto alla Chiesa italiana che «deve tornare al Convegno di Firenze ». Cosa significa?
A Firenze si è stabilito un dialogo tra papa Francesco e la Chiesa italiana a cui egli non vuole rinunciare. Dobbiamo convincerci che il Convegno deve restare centrale nella no- stra vita ecclesiale, e questo in forza di due fattori fondamentali. Il primo è dato dai contenuti del discorso del Papa, sintesi esemplare tra i fondamenti cristologici della fede e la loro collocazione nel tempo mediante un esercizio di discernimento delle condizioni culturali, sociali e religiose del nostro popolo. Il Convegno è stato, poi, esperienza reale di sinodalità: confronto reciproco illuminato dall’ascolto dello Spirito. Una fede che si misura con la storia e un processo di ascolto e condivisione: questo è stato Firenze, e questo ritengo che il Papa voglia chiederci oggi.

Lei del Convegno ecclesiale nazionale fu «padrone di casa » e animatore. Ci aiuta a ricordare cosa risultò evidente in quei giorni? E perché contenuti, percorsi e lo stesso spirito del Convegno ecclesiale – che per il Papa sono diventati semmai più importanti – sembrano essersi dispersi in questi anni?
Padrone di casa sì, animatore meno, perché il vero animatore fu monsignor Cesare Nosiglia, a cui si deve in particolare l’introduzione del metodo dei «tavoli» per l’ascolto e il confronto. Il discorso di papa Francesco diede una chiara identità al Convegno. Poi ci furono gli altri contributi e gli esiti dei «tavoli ». È però mancato ricollegare i lavori dentro gli orizzonti aperti dal Papa. E anche questo ha fatto sì che da Firenze non siano stati tratti fino in fondo i frutti, mancando la mediazione della riflessione dei vescovi per collocarlo nel contesto del cammino della Chiesa italiana, a cominciare dalla ripresa di quanto era emerso al precedente Convegno ecclesiale di Verona nel 2006 in vista di una ridefinizione della pastorale in base non alle funzioni ecclesiali ma alle dimensioni di vita delle persone e della società. È a tutti evidente che il discorso del Papa a Firenze, momento qualificante del Convegno ecclesiale, costituisce la via maestra che egli ha voluto indicare alla Chiesa italiana. Ed è altrettanto evidente che Francesco sente di dover sollecitare la nostra Chiesa a entrare con decisione su questa strada. Quanto è stato fatto finora non è sufficiente. Non che manchino tentativi in questa direzione. Noi stessi, nell’arcidiocesi fiorentina, siamo impegnati da quattro anni in un Cammino sinodale che ha a tema proprio il discorso del Papa e la Evangelii gaudium, in cui stiamo raccogliendo attese e interrogativi ma anche esperienze da condividere.

Nel suo discorso in Santa Maria del Fiore il Santo Padre chiese a tutta la Chiesa italiana di lavorare a ogni livello proprio sulla Evangelii gaudium, che delinea un vero programma per «l’annuncio del Vangelo nel mondo attuale». La Conferenza episcopale toscana l’ha fatto ricavandone un volume che lei stesso ha consegnato al Papa proprio il giorno dell’udienza. Che messaggio emerge da quell’esortazione apostolica per la nostra Chiesa oggi?
C’è ancora chi pensa che il rinnovamento della Chiesa passi attraverso una revisione delle strutture e dei rapporti tra i diversi soggetti ecclesiali. Tutto questo è spazzato via dall’orizzonte dell’Evangelii gaudium, in cui il Papa ci insegna che la vera riforma della Chiesa nasce dall’esperienza del suo proiettarsi nella storia come soggetto unitario missionario. Questa proiezione missionaria non è una novità per il cammino della nostra Chiesa. Se ne parlava già nel 1995 al Convegno ecclesiale di Palermo: allora si diceva «Chiesa estroversa», espressione non molto distante da quella preferita dal Papa di «Chiesa in uscita». Ma ciò che papa Francesco innova profondamente è collegare la Chiesa in uscita con la prospettiva di una Chiesa che va in cerca della presenza di Dio nella storia, con atteggiamento di ascolto, nella certezza che Dio la precede. A questo poi si aggiunga l’applicazione alla vita pastorale dei quattro princìpi di vita sociale che, nel loro insieme, costituiscono il modo con cui va esercitato il discernimento: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte (se ne parla in Evangelii gaudium 238-258). Il ritardo della nostra Chiesa nell’accogliere le indicazioni del Papa ritengo che sia tutto nella mancata ricezione di questi princìpi. Il volume che ho consegnato al Papa contiene quanto emerso in un incontro, promosso dai vescovi toscani, in cui abbiamo riproposto il metodo del Convegno. Da quella riflessione è emerso come la testimonianza ecclesiale debba essere presenza nel mondo di persone abitate dal Vangelo e disposte ad accogliere l’altro come fratello, offrendo ragioni di fiducia e rigenerando i luoghi della vita.

Francesco ha anche detto che la Chiesa italiana «deve incominciare un processo di Sinodo nazionale». Come interpreta questa indicazione? E cosa va fatto adesso?
È importante notare come il Papa chieda di «incominciare un processo di Sinodo nazionale». Non ci è chiesto di fare un’assemblea in cui confrontarci e decidere qualcosa sulla vita della Chiesa nella forma di un documento che raccolga decisioni prese a maggioranza, ma di metterci in movimento, aprire un processo, che deve avere il carattere della sinodalità e coinvolgere tutti i livelli ecclesiali, come dice ancora il Papa: «Comunità per comunità, diocesi per diocesi», prima di far sintesi a livello nazionale. Il carattere dinamico del Sinodo, a cui il Papa ci chiama, corrisponde peraltro al noto assioma, che ho prima richiamato, per cui «il tempo è superiore allo spazio»: occorre avviare processi più che attestarsi sui risultati, che sarebbero sempre provvisori. Non esiste un documento in cui fotografare il volto della Chiesa, perché questo volto assume linee sempre nuove nel continuo confronto con la storia. Il Sinodo a cui il Papa ci esorta è un’esperienza di attivazione dinamica della vita ecclesiale, per superare le forme cristallizzate di una pastorale che non intercetta più il cambiamento culturale e sociale.

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