sabato 13 dicembre 2008
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Sul rapporto tra Paolo e l’ebraismo sono stati scritti fiumi di inchiostro. C’è chi - come Agostino e Lutero - partendo dalla teologia paolina del primato della grazia sulla legge, hanno sottolineato l’elemento della rottura. Ma c’è stato anche chi - come Moltmann, in anni più recenti - basandosi sull’affermazione della Lettera ai Romani secondo cui l’alleanza di Dio con il suo popolo è irrevocabile, ha parlato di Paolo come di un profeta della riconciliazione tra ebrei e cristiani. Forse, però, una nuova pagina in questo dibattito (teologico, ma non solo) possono aiutarla a scrivere alcuni studi che stanno permettendo di conoscere un po’ meglio qual era il profilo dell’ambiente in cui visse l’apostolo delle genti. Un contesto che oggi sappiamo essere stato caratterizzato da un ebraismo d’impronta ellenista. È questa la tesi contenuta nell’articolo Conoscere Paolo oggi: un cambio di paradigma - , pubblicato recentemente dalla rivista dei gesuiti inglesi Thinking Faith. Una riflessione resa molto significativa, in questo Anno paolino, dal profilo del suo autore. A firmarla, infatti, è padre David Neuhaus, gesuita israeliano che - oltre a insegnare Sacra Scrittura nel seminario del Patriarcato latino di Gerusalemme - è anche segretario-generale del Vicariato per i cattolici di lingua ebraica. Dunque si tratta di una riflessione su Paolo nata nell’ambito della keillah, la piccola comunità cattolica che in Israele oggi incarna in maniera anche visibile la radice ebraica della Chiesa madre. «Quando ci accostiamo agli Atti degli Apostoli - si legge nell’articolo - noi tendiamo a vedere nel discorso di Stefano e nella conversione di Paolo l’emergere del cristianesimo come realtà distinta dalle sue radici ebraiche. Studi recenti, invece, insistono sul fatto che questa separazione impiegò anni a realizzarsi completamente. C’è chi dice che, ancora alla fine del secondo secolo, l’ebraismo e il cristianesimo non fossero ancora due religioni tra loro separate. I confini chiari che sono stati eretti e rimangono al loro posto oggi non esistevano nel mondo di Paolo». Per padre Neuhaus, dunque, l’apostolo si sente ancora pienamente ebreo. Tanto è vero che nelle lettere Paolo racconta la sua vocazione in un modo che ricorda da vicino la chiamata dei profeti nell’Antico Testamento. Ma soprattutto l’apostolo delle genti è un ebreo della Gerusalemme della prima metà del primo secolo. Cioè di un contesto che non conosce ancora la contrapposizione tra ebraismo e mondo ellenista. Anzi, proprio il contatto con la cultura greca aveva dato vita a una sintesi interessante, che Paolo sentiva come propria. «Delle ottantatré citazioni esplicite della Scrittura che troviamo nelle lettere autentiche (Romani, le due ai Corinzi, Galati, Filippesi, la prima ai Tessalonicesi e la lettera a Filemone) solo cinque - scrive padre Neuhaus - divergono in maniera significativa dalle versione che noi conosciamo della Bibbia dei Settanta e probabilmente sono prese da altre versioni greche della Scrittura che circolavano ai tempi di Paolo». È una sintesi che durerà ancora poco. «La delegittimazione dell’ebraismo ellenista - spiega il gesuita israeliano - sarà un fattore importante nelle generazioni successive, quelle dell’ebraismo rabbinico, quando i rabbi cercheranno di affermare la loro autorità. Ma, ai tempi di Paolo, offrire in greco l’interpretazione di un ebraismo che trova il suo centro in Cristo, oserei dire che è ancora molto ebraico». A partire da quest’idea padre Neuhaus definisce un "fantasma" la tesi - avanzata in passato da alcuni studiosi - secondo cui Paolo sarebbe stato un rabbi che si convertì al cristianesimo. Questa tesi presupporrebbe una continuità tra il movimento dei farisei - in cui l’apostolo nella lettera ai Filippesi scrive di essersi riconosciuto - e i rabbini, che come classe a sé di maestri della legge emergono solo dopo il 70 d.C. Tra Paolo e i rabbi della Mishnà ci sono in mezzo la distruzione del Tempio e decenni di riformulazione dell’identità ebraica in questa nuova situazione. Secondo il gesuita israeliano è dunque sbagliato cercare nel pensiero rabbinico le chiavi per capire Paolo. «I suoi contemporanei - commenta - sono Filone d’Alessandria e Giuseppe Flavio, non i rabbini del periodo successivo». Letto, dunque, nel contesto dell’ebraismo ellenista, anche lo slancio missionario verso i Gentili per padre Neuhaus acquista un significato nuovo. Perché una delle caratteristiche di questa corrente era l’accentuazione dell’universalismo, un elemento ben presente anche nella tradizione ebraica. «La formulazione che offre Paolo della fede in Cristo - scrive ancora il gesuita - è un’eredità dell’ebraismo dell’epoca del Secondo Tempio, che aveva una sua Bibbia, quella dei Settanta, una sua lingua, il greco, e un interesse molto alto per il tema dell’universalità e della coerenza del messaggio divino. L’attività missionaria di Paolo va dunque intesa come una missione ebraica tra i Gentili, che mira a includerli nel disegno di Dio per la salvezza di tutta l’umanità. In questo senso - continua il religioso israeliano - proprio lo slancio energico verso i Gentili - in forza del quale egli fu l’apostolo della Buona Notizia del Risorto - diventa una chiave importante per capire Paolo dentro il suo mondo. Paolo - conclude padre Neuhaus - credeva che il suo fosse il modo giusto di essere ebreo e che ora i Gentili che egli convertiva fossero chiamati a essere parte anche del Popolo di Dio, radicati su quell’albero d’ulivo da Lui coltivato che è Israele».
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