sabato 16 gennaio 2021
Domani la 32ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Al centro della riflessione comune, uno dei libri più noti della Bibbia
La sinagoga in campo del Ghetto nel sestiere di Cannaregio a Venezia

La sinagoga in campo del Ghetto nel sestiere di Cannaregio a Venezia - Ansa

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«Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo». Sono le parole della dichiarazione del Vaticano II Nostra Aetate che ispira la 32ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si tiene domenica.

È un’iniziativa che prese vita, appunto, 32 anni fa, nel 1989, per volere della Conferenza episcopale italiana e venne fissata il 17 gennaio, il giorno prima dell’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il tema della Giornata di quest’anno è il libro del Qohelet, che conclude una riflessione comune sulle Meghil-lot, in ebraico «i rotoli», nome che identifica cinque libri della Bibbia: Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qohelet ed Ester. Sul sito ecumenismo.chiesacattolica. it è disponibile un robusto sussidio a curato dalla Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, prefato dal suo presi- dente, il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino Ambrogio Spreafico – che fa anche il punto sulle iniziative comuni tra ebrei e cattolici nell’anno passato e in quello che si è aperto – e con due commenti: uno di rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo della Comunità ebraica di Genova, l’altro di don Luca Mazzinghi, dell’arcidiocesi di Firenze e ordinario di esegesi dell’Antico Testamento presso la Pontificia Università Gregoriana.

«Da molti questo libro è ancora chiamato Ecclesiaste, dal termine con il quale venne tradotto dalle antiche versioni greca e latina l’ebraico Qohe-let, che indica probabilmente un uomo che parla nell’assemblea, qahal » spiega Mazzinghi, che cerca di rappresentare, stilizzandolo con tre pennellate, questo misterioso personaggio e il libro che da lui prende il nome. « Qohelet insegna tre cose. La prima è un messaggio apparentemente negativo: tutto è hebel, termine ebraico che fu tradotto da Girolamo nella Vulgata con vanitas, da cui la maggioranza delle traduzioni moderne con “vanità”, ma che letteralmente vuol dire soffio, vapore. Tutto è un soffio, ovvero tutto passa, tutto è transitorio, la realtà ci sfugge di mano. E, aggiungerei, tutto appare assurdo, la realtà non è come dovrebbe essere, “non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9). Per un motivo soprattutto: la morte, che rende tutto vuoto – e lo capiamo tanto più in questo tempo di pandemia. Inoltre Dio c’è, ma è come se non desse risposte, sembra muto».

Questo è il polo freddo, negativo del Qohelet, quello che la maggior parte dei commentatori evidenzia, spesso in modo esclusivo. Da questo punto di vista, il Qohelet è la sentinella critica che ci ancora avverte come la realtà è complessa e ogni teologia imperfetta. Però il biblista fiorentino è tra gli studiosi che sottolineano la presenza di un polo positivo: «Sono i passaggi sulla gioia; non a caso nell’ebraismo il Qohelet viene letto a Sukkot, la festa delle Capanne, festa della gioia per eccellenza, anche della gioia della Legge. Nel Qohelet la gioia si presenta tuttavia in modo semplice, quotidiano: “Ecco ciò che io ritengo buono, che è appropriato mangiare, bere e godersi il frutto del proprio lavoro faticoso per il quale ci si affatica sotto il sole, nei giorni contati della propria vita, che Dio concede all’essere umano: questa infatti è la parte che a lui spetta” (Qo 5,17)». Qui però ci troviamo di fronte a un dilemma: come tenere insieme due aspetti in apparenza contraddittori? Tutto è un soffio, la morte porta via tutto, eppure una semplice gioia è possibile: ma come?

«Esiste nel libro del Qohelet un terzo tema – risponde Mazzinghi – che è quello davvero centrale: Dio. Dio viene citato 38 volte, tante quante hebel, più due volte nell’epilogo, scritto in realtà da un discepolo di Qohelet. E in queste 38 volte i verbi associati a Dio sono sostanzialmente tre: “dare”, “fare” e “temere”. Il Dio del Qohelet dà all’essere umano il compito di esplorare, di cercare il senso della realtà. Dà poi all’umanità la vita e soprattutto dà la gioia. È poi un Dio che fa tutto ciò che vuole perché è sovranamente libero. È un Dio che chiede di essere temuto, di essere creduto per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse. Un Dio al di là dei nostri schemi e delle nostre teologie. Ma è tuttavia un Dio che esiste, che c’è, che è presente: “il tuo Creatore” (Qo 12,1). Così Qohelet riesce a superare l’impasse tra pessimismo e ottimismo. Se non ci fosse questo Dio, tutto sarebbe davvero un soffio che svanisce nel nulla e la gioia sarebbe davvero solo un’illusione».

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