domenica 30 agosto 2020
Compie 90 anni il cardinale francese che ha guidato i Pontifici Consigli della cultura e del dialogo interreligioso. «Ecco come nacquero le encicliche di Paolo VI Populorum progressio e Humanae Vitae»
IL cardinale Paul Poupard in una foto d'archivio

IL cardinale Paul Poupard in una foto d'archivio - Siciliani

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Dal Concilio Vaticano II che definisce «bussola della sua vita» agli anni alla guida del Pontificio Consiglio della cultura e del dicastero vaticano per il dialogo interreligioso sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI fino all’elezione sul soglio di Pietro del cardinale Jorge Mario Bergoglio. E non ultimo il «dramma umano e sociale» di questo 2020: la pandemia. È un album carico di ricordi per il suo «Novecento e non solo» quello che racconta il cardinale Paul Poupard che questa domenica taglia il traguardo dei 90 anni. Nato in Francia nel cuore della Loira, il 30 agosto 1930, nella piccola città di Bouzillé, il cardinale ha deciso di trascorrere questa lunga estate costellata da divieti, e misure restrittive “confinato” tra le montagne dell’Abruzzo. «La pandemia – confida – ci sta insegnando a tornare all’essenziale e a riscoprire uno stile più evangelico. Come a pregare meglio per gli altri».

Il Vaticano II ha rappresentato un capitolo centrale della sua vita. Ci può spiegare perché?
Ero allora un giovane sacerdote chiamato in Segreteria di Stato all’inizio del pontificato di Giovanni XXIII, di cui ricordo ancora l’umanità e capacità di ascolto. Di Roncalli potei apprezzare la sua profonda conoscenza di studioso dei Concili. Mi tornano spesso in mente i confronti accesi tra i padri conciliari, gli innumerevoli incontri con i periti come De Lubac e Congar. Il Vaticano II è stato per me la scoperta meravigliosa della cattolicità della Chiesa. Ma sono ancora vive le tempeste del post-Concilio vissute accanto a Paolo VI e la tenace messa in pratica degli insegnamenti del Vaticano II di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Pensando ai documenti delle assise li si potrebbe rileggere anche venti volte e ogni volta si scoprirebbe qualcosa di nuovo.

Ed è proprio in quegli che conosce da vicino Paolo VI, con cui collabora in particolare per l’enciclica Populorum progressio del 1967.
Toccò a me, allora 36enne prete “semplice” officiale della Segreteria di Stato, presentare alla stampa il documento. La stesura finale dell’enciclica fu affidata a me dopo la scomparsa del domenicano bretone Louis Joseph Lebret con cui il Pontefice di Concesio condivideva la stessa visione sullo sviluppo integrale e solidale dell’umanità. Si tratta di un testo che parla all’uomo di oggi, dei tanti diritti violati dei poveri. Papa Montini mi chiese un giorno come era stata accolta l’enciclica. «Santo Padre lei ha scosso la coscienza del mondo», fu la mia risposta. E mi viene spesso in mente la sua replica: «Era quello che intendevo fare».

Nel 1968 lei si trovò ad avere un ruolo indiretto per l’enciclica Humanae vitae sempre di Paolo VI.
Il Papa avvertiva su di sé il peso di portare a termine il lavoro di riflessione iniziato dal suo predecessore, Giovanni XXIII, sulla regolazione delle nascite. La maggioranza degli esperti e anche i suoi amici francesi Jacques Maritain e Jean Guitton l’avevano lasciato solo. Ci fu allora l’apporto decisivo del cardinale Wojtyla. Ma il testo preparato dai domenicani Luigi Ciappi e Benoit Duroux e dal teologo di fiducia di Paolo VI, Carlo Colombo, era improntato al concetto di natura poco comprensibile per la maggioranza della gente. Come traduttore in francese, ho sentito il dovere di porre l’attenzione su una necessità, come indica l’enciclica Ecclesiam Suam: quella di ascoltare prima di parlare, per farsi capire con un linguaggio familiare. Da qui ho fatto lo sforzo di tradurre in chiave personalistica il testo montiniano con una predilezione ad approfondire il tema della natura e della persona.

Sotto Giovanni Paolo II lei in un certo senso ha “riaperto” il processo a Galileo Galilei.
Per la prima volta la Chiesa ammise che Galileo era stato condannato per errore da giudici che avevano agito in buona fede. La preoccupazione di papa Wojtyla era soprattutto quella di mostrare al mondo che un grande scienziato aveva sofferto a causa della Chiesa. Si trattò di un lungo lavoro di rivisitazione del “caso Galileo” durato undici anni a cui diede anche un notevole contributo il gesuita e astronomo della Specola Vaticana, George Coyne.

A cento anni dalla nascita di Karol Wojtyla quale ricordo particolare conserva?
Tra le grandi intuizioni del magistero wojtyliano vi è stata l’importanza della cultura nella vita dei popoli e di conseguenza della Chiesa. Sapeva ascoltare le ragioni degli altri. Lo testimoniano ancora oggi gli incontri estivi a Castel Gandolfo con filosofi del valore di Ricoeur, Lévinas e Gadamer. Mi diceva in quel frangente, con una punta di ironia: «Adesso sono il “silent Pope”, ma riprendo la parola a pranzo….».

E di Benedetto XVI?
La mia collaborazione con Ratzinger è stata molto felice. Spesso l’allora cardinale amava ripetermi questa frase: «Il Papa ci ha fatto venire a Roma insieme, lei per la cultura, io per le questioni di fede e di dottrina». Da Pontefice ha voluto prolungare il mio ufficio, dopo le mie dimissioni a 75 anni, di due anni alla guida del Pontificio Consiglio della cultura affidandomi in più il dicastero del dialogo interreligioso. La convinzione di papa Ratzinger era infatti che non si può costruire un dialogo senza un vero confronto tra le culture. La sua rinuncia al ministero petrino ci ha fatto comprendere in profondità che si trattava di una scelta maturata per il bene della Chiesa a cui ora da Vescovo emerito di Roma dedica un importante servizio essenziale: quello della preghiera.

L’elezione di papa Francesco al soglio di Pietro che cosa ha significato per lei?
Quando papa Bergoglio si è affacciato dalla loggia della Basilica di San Pietro, è stata come una scossa profetica per tutta la Chiesa. La conoscenza con l’allora padre Bergoglio ha radici antiche: il nostro primo incontro risale al 1985 quando da semplice gesuita, era rettore del Collegio San Giuseppe, mi invitò a Buenos Aires. Il suo ministero pastorale è un invito pressante a lasciare certe nostre consuetudini e certezze che sembravano essere consone con la vita della Chiesa ma che di un colpo sono divenute obsolete. La sua lezione più grande? Quello di insegnarci a vivere semplicemente il Vangelo nella Chiesa per il mondo.

Quali parole si sente di rivolgere alle nuove generazioni e al suo Paese?
Nei secoli la Chiesa di Francia ha dato tanti santi, pensatori e pastori che sono stati grandi doni di Dio. Oggi è come una nazione spaesata, fa fatica a proporre la Buona Novella alle giovani generazioni prive di memoria e senza bussola. Ma lo Spirito Santo è sempre attivo e non cessa di suscitare tra i ragazzi nuove vocazioni a seguire Gesù proprio perché non ci sono più quei risentimenti verso la Chiesa che vi era all’epoca della contestazione del 1968. Ci sono tanti segni di risveglio cattolico, a cominciare dalle numerose famiglie che ricercano un ideale di vita cristiana che può rappresentare un “felice lievito” nella pasta stanca del Vecchio Mondo. Come amo spesso ripetere, bisogna coltivare per la nostra vecchia Europa una cultura della speranza.

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