mercoledì 15 gennaio 2020
Don Basilio Petrà: fu Giovanni Paolo II ad approvare il Codice dei canoni delle Chiese cattoliche d'Oriente in cui si dice che tra preti celibi o preti sposati non c'è differenza qualitativa
Don Basilio Petrà

Don Basilio Petrà - archivio

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Il celibato sacerdotale? «Sicuramente un grande dono, ma certamente non un dogma e neppure una via privilegiata al ministero. Anzi tra sacerdoti celibi e sacerdoti sposati – spiega don Basilio Petrà, preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale – non c’è differenza qualitativa». Non è una sua convinzione ma, come argomenta, quanto emerge dai documenti del Vaticano II. Nel decreto conciliare Presbyterorum Ordinis si afferma con chiarezza che «la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli (...) non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali». Anzi, i preti sposati di quelle Chiese vengono esortati nello stesso documento conciliare «a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato».

Qui sembra che i padri conciliari riconoscano la possibilità di integrare positivamente i due sacramenti nella stessa persona. È così?

Nel Codice dei canoni delle Chiese cattoliche di rito orientale si spiega con chiarezza e con una ricchezza teologica che andrebbe fatta conoscere a tutti, che tra matrimonio e ordine sacro non solo non c’è alcuna contraddizione ma rappresentano un approfondimento reciproco del triplice dono sacerdotale, profetico e regale di ogni battezzato. E sa chi ha approvato e firmato quel Codice? Giovanni Paolo II. Spesso la verità è più complessa di quello che immaginiamo

Vuol dire che esagera chi oggi parla di «grave pericolo» connesso all’ipotesi di superare il sacerdozio celibatario?

Siamo portati a pensare che le prassi in uso nella Chiesa di rito latino rappresentino l’unica strada possibile. Non è così. Tra le 19 Chiese cattoliche di rito orientale, solo le due indiane non hanno preti sposati. Per tutte le altre la paternità sacerdotale è una conseguenza della paternità familiare. Solo chi era buon marito e buon padre di famiglia poteva essere ordinato prete, secondo il principio paolino.

Eppure secondo alcuni ricordare questi fondamenti rischia di tradursi in un attentato al principio del celibato.

Tutt’altro. Significa invece riconoscere che nella Chiesa che, come ricordava appunto Giovanni Paolo II, respira a due polmoni, ci sono anche due tradizioni, due prassi, due codici. Entrambi pienamente legittimi e pienamente fondati dal punto di vista della tradizione e del magistero, come anche il Vaticano II ha riconosciuto.

Lei ha scritto vari saggi sull’argomento. Tra gli altri Preti sposati per volontà di Dio (2004) e Preti celibi e preti sposati. Due carismi per la Chiesa cattolica (2011) in cui tra l’altro arriva a dire che anche il sacerdozio uxorato, come quello celibatario, nasce dalla volontà di Dio in vista della salvezza degli uomini.

Proprio così. Se anche il Vaticano II ha riconosciuto formalmente il valore teologico del sacerdozio uxorato, considerandolo una condizione certamente distinta dalla forma del sacerdozio celibatario, ma ugualmente densa di valore vuol dire che anche in Occidente quella ricchezza di significati non verrebbe meno. Nelle Chiese cattoliche orientali i preti sposati sono migliaia e migliaia. E per tutti l’esemplarità della vita coniugale diventa esemplarità della vita sacerdotale, in perfetta continuità. Tanto che prima ci si sposa, poi si viene ordinati preti. E quindi dobbiamo pensare che, se nascono nella verità, entrambi le vocazioni siano frutto dell’ascolto della volontà di Dio.

Ma di fronte a queste evidenze, come guardare a coloro che accusano il Papa di eresia solo perché ammette l’ipotesi di valutare questi problemi?

Che siamo di fronte a persone che ignorano tradizione, magistero e teologia della Chiesa. Quando la teologia delle Chiese cattoliche d’Oriente spiega in modo approfondito che ministero familiare e ministero sacerdotale uxorato realizzano pienamente il senso della missione ecclesiale in una logica di continuità che arricchisce sia la coniugalità sia il ministerialità del prete, fa un’affermazione che non può essere contestata.

Oggi forse no, ma quando sono usciti i suoi libri il dibattito fu piuttosto acceso, con contestazioni anche pesanti.

Eh sì, eppure nonostante vari tentativi di sottoporre queste tesi al vaglio dell’autorità ecclesiastica, non ho mai avuto conseguenze di alcun tipo. È bastata un’indagine preliminare da parte di esperti competenti, per capire che tutto è fondato sulla tradizione e sul magistero. La legge del celibato ecclesiastico non è di natura divina e dare identica dignità ai due carismi – quello celibatario e quello uxorato – non rappresenta un rischio né per la tradizione latina né per l’evangelizzazione. Anzi.

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