venerdì 20 novembre 2015
​Francesco ha ricevuto in udienza i partecipanti a un convegno organizzato dalla Congregazione per il clero.
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Un sacerdote non è un rigido “professionista della pastorale”, ma un uomo sempre vicino al “popolo”, di cui è padre e fratello, e soprattutto un “apostolo di gioia” del Vangelo. Lo ha ribadito Papa Francesco ricevendo in udienza i partecipanti al Convegno organizzato dalla Congregazione per il Clero e incentrato su due documenti conciliari – l’“Optatam Totius” il e “Presbyterorum ordinis” – a 50 anni dalla loro promulgazione. Dal momento che annuncia la “buona notizia”, un prete non può che essere il ritratto della gioia del Vangelo. Pose da funzionario, un po’ altero, che ricerca spazi privati staccato dalla gente, o visi che tradiscono tristezze da persona umanamente irrisolta non possono semplicemente far parte del bagaglio di un ministro di Dio. Non siete “funghi” spuntati a caso Papa Francesco ritorna con vigore su un tema a lui caro e lo fa come sempre senza giri di parole. Per capire questa vocazione – afferma davanti ai convegnisti che lo ascoltano nella Sala Regia del Palazzo apostolico – bisogna considerare il fatto che, sostiene, i sacerdoti sono “presi fra gli uomini”, sono “costituiti in favore degli uomini” e sono “presenti in mezzo agli altri uomini”. “Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano; lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono ‘funghi’ che spuntano improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro ordinazione (...) Questo vuol dire che non si può fare il prete credendo che uno è stato formato in laboratorio, no; incomincia in famiglia con la tradizione della fede e con tutta l’esperienza della famiglia”. Sereni, non nevrotici Un “buon prete”, prosegue Francesco, è anzitutto figlio di un contesto comunitario, a partire da quel “fondamentale centro di ‘pastorale vocazionale’ che è la famiglia”. E poi è un “uomo con la sua propria umanità”. È basilare, afferma, che i preti “imparino a non farsi dominare dai loro limiti, ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti”: “Un prete che sia un uomo pacificato, pacificato, saprà diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore. Non è normale invece che un prete sia spesso triste, nervoso o duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al prete, né al suo popolo (…) Per favore, che i fedeli non paghino la nevrosi dei preti… Non bastonare i fedeli, vicinanza di cuore con loro”. Ministri che “mordono” Il Papa insiste molto sulle “radici” familiari e sociali da cui scaturisce, cresce e si fortifica una vocazione sacerdotale. Racconta un aneddoto di tanti anni fa, di un giovane sacerdote gesuita che entra in crisi, vorrebbe mollare, ma a rimetterlo in carreggiata sono gli “schiaffi spirituali” di sua madre, con la quale il futuro Papa gli ha suggerito di confidarsi. “Un prete – ripete – non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo” e al suo servizio: “Sapere e ricordare di essere ‘costituiti per il popolo’ - popolo santo, popolo di Dio -, aiuta i preti a non pensare a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori, non funzionari (...) Io vi dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura. Ai preti rigidi… Lontano! Ti mordono! (...) Il ministro senza il Signore diviene rigido e questo è un pericolo per il popolo di Dio”. Amore e vicinanza E nel vivere la sua missione, il sacerdote – riafferma Francesco – non può comportarsi come “un professionista della pastorale o dell’evangelizzazione, che arriva e fa ciò che deve – magari bene, ma come fosse un mestiere – e poi se ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per stare in mezzo alla gente”, asserisce, e dunque il criterio base e “la vicinanza”. Vicinanza che intanto con grande cura i vescovi, dice con forza il Papa, sono chiamati a manifestare verso i sacerdoti della loro diocesi. “Ci sono vescovi che sembrano allontanarsi dai preti (...) E questo è amore di padre, fratellanza (…) “No, ho una conferenza in tale città e poi devo fare un viaggio in America e poi…”. Ma, senti, il decreto di residenza di Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi, dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato molto buono. Ma se tu sei vescovo di quella diocesi, residenza. Queste due cose, vicinanza residenza”. Occhio ai seminari Quindi, Francesco invita ad avere un atteggiamento di grande misericordia durante le confessioni – impartendo comunque almeno una benedizione quando proprio l’assoluzione è impossibile – per poi spostare l’attenzione ai futuri sacerdoti. “Occhi aperti nella formazione dei seminari”, dice, ricordando un episodio del ’72, quando, nei panni di maestro dei novizi, portò a esaminare da una psichiatra i test di valutazione della personalità di alcuni ragazzi. E – riferisce il Papa – la dottoressa fu schietta nell’indicare chi, a suo giudizio, non possedeva le doti per essere un buon sacerdote. Gente psichicamente fragile – disse il medico – che inconsciamente è alla ricerca di sicurezza nelle “istituzioni forti”, come possono essere oltre al clero anche la polizia o l’esercito. “Viscere di misericordia” Ma ciò che in definitiva conta, conclude Francesco, sono le tre qualità che un sacerdote deve sempre testimoniare tra la sua gente, “vicinanza, viscere di misericordia, sguardo amorevole”: “Un prete non può avere uno spazio privato perché sempre è o col Signore o col popolo. Io penso a quei preti che ho conosciuto nella mia città, quando non c’era la segreteria telefonica, niente, ma dormivano con il telefono sopra il comodino, e a qualunque ora chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo avevano uno spazio privato. Questo è zelo apostolico”. (Alessandro De Carolis, Radio Vaticana)
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