domenica 6 agosto 2023
Raccontava il suo segretario, Macchi: «Voleva andarsene senza disturbare, nel pieno delle forze intellettuali e spirituali per offrire consapevolmente la sua morte come “dono d’amore”»
Paolo VI saluta a braccia aperte i fedeli

Paolo VI saluta a braccia aperte i fedeli - Archivio

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Quarantacinque anni fa, festa della Trasfigurazione di Gesù, una domenica come oggi, a Castel Gandolfo, nella stessa camera dove vent’anni prima si era spento Pio XII, moriva - a causa di un edema polmonare -il Papa del dialogo con il mondo contemporaneo: Paolo VI. Un “dies natalis” che segnava la conclusione di un pontificato di straordinaria rilevanza per il cattolicesimo del ‘900 e che aveva già messo in moto dinamiche le cui conseguenze sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti, nonostante le linee impresse dai successori innanzi alle sfide della modernità, della globalizzazione, del secolarismo.

Ma fermiamoci su quella sera del 6 agosto. Se è vero che Paolo VI desiderava essere aiutato a “morire bene” come più volte aveva ripetuto a chi gli stava vicino – secondo il segretario don Pasquale Macchi voleva «morire in silenzio, senza disturbare, nel pieno delle forze intellettuali e spirituali per offrire consapevolmente la sua morte come “dono d’amore alla Chiesa”...» - fu certamente esaudito. E il racconto delle ultime ore mette in risalto l’ultima Messa celebrata dal segretario seguita dal letto indossando la stola, la somministrazione dell’unzione degli infermi, e la voce del Papa, sempre più fievole, che si spegne insieme alla preghiera del Signore.

Non sono già mancate, soprattutto su queste pagine, lungo i primi sette mesi di quest’anno, le occasioni per richiamare la figura di Montini. Di recente dando conto del premio internazionale promosso dall’Istituto Paolo VI per rinnovare la memoria del Papa bresciano, e tributato– per il suo servizio al bene comune - al presidente della Repubblica Mattarella che lo ha ricevuto dalle mani di papa Francesco. Oppure rievocando i sessant’anni dell’elezione di Paolo VI, pronto a raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II. Potremmo aggiungere anche gli ottant’anni del Codice di Camaldoli visti il ruolo e il sostegno dell’allora Sostituto della Segreteria di Stato agli intellettuali “montiniani”- che ne elaborarono gli indirizzi, non senza influenza sui lavori della Costituente. Ed altro ancora.

Oggi, però, ricordare fine della parabola umana e spirituale di Montini, nonché del suo pontificato, significa ancora una volta, a dispetto del tempo che passa, riconoscerne il persistere della sopravvivenza. Dove? Sicuramente in quella Chiesa sempre più sinodale, comunionale, missionaria, vicina a tutti senza discriminazioni, nella quale non pochi osservatori hanno visto una nuova fase di recezione del Concilio. La Chiesa dell’ “Evangelii Gaudium” di papa Bergoglio che sembra prolungare l’ “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI, ponendo al centro Gesù e il suo Vangelo misura di tutto, dove giustizia, pace, amore dei poveri, salvaguardia del creato…, non sono corollari di altro.

Oggi serbare memoria di Montini significa ribadire l’importanza di continuare a studiarlo non solo “con amore” (“atto di riparazione dovuto alla sua memoria”), ma specialmente “con rigore scientifico”, e “con la convinzione che la sua eredità spirituale continua ad arricchire la Chiesa e può alimentare le coscienze degli uomini d’oggi, tanto bisognosi di parole di vita eterna…”, come raccomandava già nel 1980 Giovanni Paolo II rivolgendosi ai comitati appena insediatisi dell’Istituto Paolo VI. Richiamarlo, infine, vuol dire vedere finalmente in modo nitido – e lo spiega bene un saggio di Giselda Adornato sul nuovo “Quaderno” dello stesso Istituto - i tre movimenti paralleli e infine convergenti che hanno segnato il periodo dalla morte di Paolo VI alla sua canonizzazione nel 2018, in ordine alla fama di santità.

Il primo quello, sul piano mondiale, del “popolo fedele”, laici e consacrati, che hanno visto in lui, nelle prove attraversate, nel suo pontificato spesso osteggiato, un modello per vivere la fede senza spettacolarizzarla, ma vincolata allo spasimo a diffondere Cristo. Il secondo, espressione di quella cultura cattolica impegnata a ricostruire l’itinerario intellettuale montiniano che ne ha rivelato al contempo scelte e gesti anche rischiosi nel segno del Vangelo (si pensi agli aiuti ai perseguitati per motivi razziali, politici, religiosi, nel periodo bellico). Il terzo movimento, quello che - raccogliendo i due citati- ha sostenuto occasioni e spazi istituzionali e non solo, tesi a valorizzare l’intreccio tra intimità spirituale e vita pubblica del papa che ha portato a termine il Concilio, cogliendone –vera cifra dell’impegno di Paolo VI insieme al confronto con la modernità- la piena fedeltà a Cristo.


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