mercoledì 28 agosto 2013
​Dopo l'udienza con Bergoglio, parla il prete delle favelas di Rio de Janeiro: "Volevo lasciare il sacerdozio, si mise al mio fianco e seppe ascoltarmi". Ne nacque una forte amicizia, che lo ha sostenuto nella sua missione accanto ai più poveri. (Stefania Falasca)
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È un uomo di Dio che incontrarlo fa bene alla mia anima e alla mia vita spirituale», disse una volta Bergoglio parlando di Josè Maria di Paola, noto come «padre Pepe», uno dei preti impegnati nelle villas miserias di Buenos Aires. Dell’udienza che el cura villero ha avuto qualche giorno fa con il papa Francesco alla Casa Santa Marta ha dato notizia anche il bollettino della Sala Stampa vaticana, ma le due ore e mezza con il Papa sono trascorse come quelle di due amici di vecchia data che si ritrovano insieme bevendo mate. Era la prima volta che padre Pepe rivedeva Bergoglio dopo l’elezione papale di quest’ultimo. L’ultima volta che lo aveva incontrato in Argentina è stato a febbraio, in occasione del suo ritorno a Buenos Aires per la nuova missione alla villa La Carcova. «Temevo – ha commentato con la sua solita spontaneità e un pizzico d’umorismo – che il peso del nuovo governo lo avesse appesantito, l’ho trovato invece più vitale, pieno di energia, di idee… anzi è ringiovanito!». Padre Pepe, è vero, conosce da tanti anni Bergoglio. Ma come si è stabilita tra loro questa stretta amicizia? «Bergoglio l’ho conosciuto nel 1993 quando era ancora uno dei vescovi ausiliari di Buenos Aires, ma l’amicizia con lui non è nata dalle iniziative, dai programmi organizzativi e pastorali della diocesi. La sua vicinanza è nata ed è divenuta importante in un momento particolare della mia vita personale» racconta el cura. Una circostanza che illumina ed è eloquente della lungimirante delicatezza umana e spirituale con cui l’attuale vescovo di Roma sa custodire e aiutare le anime e trattare con i sacerdoti.«Ero prete già da sette anni – racconta don Pepe – e mi trovai a vivere un periodo di crisi riguardo alla mia vocazione sacerdotale e cominciai a pensare che la mia strada fosse un’altra, quella di formare una famiglia… parlai allora con franchezza ai miei superiori di questo». Pur nella confusione interiore, don Pepe voleva rimanere leale e trasparente, senza conservare la forma e percorrere le vie dell’ambiguità e della doppiezza e chiese così di essere dispensato dall’esercizio del sacerdozio. «Andai a lavorare in una fabbrica di scarpe», racconta padre Pepe e fu durante tutto quel periodo, un anno, che nacque l’amicizia con Bergoglio. «Quando gli dissi che attraversavo questa crisi lui non forzò la mano. Mi disse solo: "Quando vuoi vieni a trovarmi". M’ispirava molta confidenza, iniziai così ad andare da lui una volta al mese. Ricordo che uscivo dal lavoro e da dove mi trovavo impiegavo almeno due, tre ore per arrivare in serata alla Cattedrale. Lui mi aspettava sempre, sapevo che mi aspettava. Veniva lui ad aprirmi la porta. E mi accompagnò in quel momento di crisi come un padre, con grande finezza d’animo. Non mi diceva cosa dovevo o non dovevo fare. Ascoltava, s’interessava, diceva con chiarezza quello che pensava. Ma sempre nella libertà. Mi accompagnava in un cammino nel quale, in piena libertà, ho potuto riconoscere che la mia vocazione era davvero quella di essere sacerdote… Proprio come il padre della parabola del figliol prodigo», dice. E come nella parabola anche Pepe tornò. Ricorda ancora con vivezza il giorno in cui disse a Bergoglio: «Padre, eccomi… Mi piacerebbe celebrare la Messa». «Lui mi abbracciò e fu molto felice. Mi disse: "Vuoi che la celebriamo il giorno della Fiesta dell’Amigo? Il 20 luglio? Allora facciamo a Sant’Ignazio. Io vado a dire la Messa lì perché una signora mi ha chiesto di confessare alcune sue amiche". Io non sapevo che questa signora era una ex prostituta e che le sue amiche esercitavano ancora il mestiere! – racconta il padre – ma è stata questa la Messa con la quale ho ripreso il cammino sacerdotale unito al mio vescovo e per tutt’e due fu molto significativo». Il padre parla oggi di quei momenti di travaglio interiore come di una crisi di crescita. «Anche prima di quel periodo – dice – facevo cose simili a quelle che faccio adesso: lavoravo con i giovani, con i bambini, con i poveri. Ma ora le faccio con una forza, una convinzione e una pace interiore che prima non avevo. Da quel momento non ho avuto più esitazioni sul fatto che la mia vocazione è quella di dare tutto a Cristo e alla Chiesa attraverso il Sacerdozio». Anche per questo padre Pepe è diventato una specie di testimone credibile della vera natura della vocazione sacerdotale. «Dopo quel periodo – racconta – Bergoglio cominciò a inviarmi diversi sacerdoti e seminaristi. Mi diceva: "Senti, per favore, vai tu a parlare…". Mi chiedeva di aiutare altri sacerdoti, confidava che l’esperienza esistenziale che avevo passato potesse guidare altri». Padre Pepe ha accolto così sotto la sua guida molti giovani seminaristi e sacerdoti che si sono formati nella <+corsivo>villas miserias<+tondo>, nella parrocchia di Caacupè della villa 21. Anche la missione di cura villero che il padre Pepe volle improntare sul modello della Valdocco di don Bosco è stata un’intuizione di Bergoglio, una missione fiorita dentro questa relazione di sintonia, di prossimità con il vescovo. Bergoglio affidò così a padre Pepe con grande libertà, senza imporre linee, anche quella difficile missione e l’incarico di potenziare il lavoro pastorale facendosi carico delle nuove emergenze delle Villas. A partire da quella di salvare i ragazzi dai «mercanti delle tenebre» che inondano i quartieri marginali delle metropoli argentine.
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