venerdì 11 ottobre 2019
Anche in Italia si prova l’uso dei “pos” in chiesa, pratica molto diffusa nei Paesi dove si utilizzano meno i contanti. I favorevoli: più trasparenza e stop ai furti nelle cassette
Ora (anche) con il bancomat le «offerte» nelle parrocchie
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Cambiano i modelli di consumo ma, se entrano in chiesa, innovazioni come la carta di credito fanno più rumore. Specie in un Paese come l’Italia legato ai contanti, ultimo nella classifica UE per pagamenti digitali (il 15% rispetto alle media comunitaria del 50%, secondo l’Abi) e dove – indica Cgia Mestre – 15 milioni di concittadini non hanno un conto bancario. Suscita sconcerto o disappunto in molti la fredda tastierina in modalità “pin e tasto verde” o “contactless” vicina all’altare. Il binomio Chiesa-denaro è tra i più sensibili: sobrietà, distacco e condivisione testimoniano che la forma è sostanza, tanto più in un decennio di impoverimento delle famiglie. Più a loro agio i turisti stranieri: l’ingresso del “pos” nelle chiese risale ad almeno 15 anni fa negli Usa e in alcuni Paesi Ue. Dalla Svezia, tra le società più cashless (senza contanti) del pianeta, con le transazioni in contanti ridotte all’1-2% del totale, alla Polonia. In Gran Bretagna nei 16mila luoghi di culto abilitati, il 35% delle donazioni è elettronica. In alcuni casi gli oboli sono cresciuti del 97%, ma i parroci rendicontano anche il numero di poveri aiutati in più. «Partecipare alla vita della Chiesa con lo smartwatch una modalità più vicina alle nuove generazioni» aveva spiegato John Preston, economo della Chiesa d’Inghilterra, ma il sistema oggi è usato anche da metà dei pensionati.

Il “pos” è raro in Spagna (dal 1999), meno in Francia, dove sono già diffuse le App per sostenere la propria parrocchia, ma sul “’Pos in chiesa” talune diocesi come Reims e Bordeaux hanno fatto marcia indietro, dopo una sperimentazione. L’interesse di questa innovazione? Più trasparenza e stop ai furti nelle cassette delle offerte. Rischi di frode digitali per chi dona? «Non avrei preoccupazioni. Non c’è da temere di veder svuotata una ricaricabile per un obolo in chiesa – spiega Gabriele Faggioli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Information Security & Privacy del Politecnico di Milano –. Al confronto è ben più rischiosa una transazione online su siti non ben noti. Quanto alla privacy, le banche hanno precisi limiti nell’uso dei dati personali che, al contrario di un bonifico, non vengono comunicati alla parrocchia beneficiaria. Sono informati i gestori della carta: con il pagamento elettronico una forma di tracciabilità c’è sempre, e dunque una potenziale profilazione, come acquistando online, in farmacia o al supermercato.

Le spese parlano dei nostri gusti, della salute e qui del credo religioso». Ma il cuore della questione è la reazione dei fedeli: «È una possibilità in più dal punto di vista pastorale, accanto alla cassetta per l’obolo della vedova evangelico. La transizione al digitale è già una realtà – spiega don Luca Peyron, docente di teologia dell’innovazione all’Università Cattolica di Milano –. Per lo più non parliamo di carte “gold” ma del Torino bancomat o di una ricaricabile con cui già paghiamo il biglietto della metropolitana. Veglierei con attenzione invece sull’incontro tra persone al momento dell’offerta. Sarei cauto a smaterializzare quel tipo di relazione. Non dobbiamo privarci dell’esperienza corporea e personale dell’ingresso, nel silenzio di una chiesa, dove accendere una candela dopo aver pregato, anziché digitarlo a distanza. Così come è più significativo sganciare la Messa dall’offerta, e sentirsi parte di una famiglia, accolti in sacrestia dal sorriso amico, gentile e partecipe di un sacerdote o di una volontaria che scrive per me il nome di una persona cara sul libro delle Messe, piuttosto che prenotarle con un codice. Per la Chiesa è importante essere vicina alle persone: se chi arriva viene accolto da una comunità, se ne farà carico anche con un’offerta. Il digitale deve aiutarci a creare connessioni, ma se invece ci disconnette dalle relazioni, diventa un simulacro che in realtà ci disarticola e ci isola».

IL CASO DI TORINO

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