venerdì 27 novembre 2015
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In lingua masai Nairobi significa «luogo dell’acqua fredda». Quindi limpida. Segno di vita buona e di alleanza tra l’uomo e il creato. Ma nella capitale keniana, dove due milioni di persone, praticamente il 50% dell’intera popolazione metropolitana, vivono nelle baraccopoli (che qui chiamano slum) senza acqua corrente, né fogne, quel nome è diventato sinonimo di un drammatico paradosso. Il simbolo stesso di quella fabbrica dell’esclusione sociale, che si nutre di degrado ambientale, urbano ed economico. Lo slum più esteso è quello di Kibera, uno dei più grandi di tutta l’Africa (un milione di abitanti). Il più povero è quello di Mitumba, dove si registra un tasso di sieropositivi del 60%, un reddito giornaliero medio intorno ai 60 centesimi di dollaro e solo il 5% dei bambini che riescono a terminare la scuola elementare. Con questa realtà si è confrontato venerdì il Papa prima di partire per l’Uganda, visitando lo slum di Kangemi, dove 100mila persone si accalcano sul fondo di una piccola vallata circondata da zone residenziali per ricchi. Ancora una volta, dunque, uno di quei contrasti stridenti, cui l’Africa ricchissima di materie prime e povera di mezzi economici ci ha in qualche modo abituato. Francesco però, come ha detto ieri nel discorso alla sede Onu di Nairobi, a questa «globalizzazione dell’indifferenza » non si rassegna e chiede anche al mondo (cristiani per primi) di fare altrettanto. Il percorso che questa mattina ha fatto a piedi lungo le stradine in terra battuta dello slum, oltre a richiamare alla memoria l’analogo gesto nella favela di Varginha a Rio de Janeiro, sarà un esempio di vicinanza, di condivisione, di amore per i più poveri.
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