sabato 29 luglio 2023
A 10 anni dal suo rapimento, in un libro il pensiero e la spiritualità del gesuita che ha fondato il monastero di Deir Mar Musa in Siria Il Papa: testimone dell’amore di Cristo nel contesto musulmano
Padre Paolo Dall’Oglio in una immagine di repertorio. Di lui non si sa più nulla da 10 anni

Padre Paolo Dall’Oglio in una immagine di repertorio. Di lui non si sa più nulla da 10 anni - Ansa

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La “Regula non bullata” del monastero di Deir Mar Musa - presentata oggi a Roma presso la chiesa di Sant’Ignazio, nel giorno decimo anniversario del rapimento del suo fondatore padre Paolo dall’Oglio, a cui seguirà alle 19 una Messa presieduta dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin - rappresenta una pietra miliare per la comprensione della figura del gesuita di cui si sono perse le tracce nel 2013 a Raqqa. Questo “Tipico” - usando la definizione giuridica del codice di diritto canonico delle Chiese orientali - è certo qualcosa di più di una semplice Regola monastica: preceduta dalla traduzione in italiano di alcune conferenze inedite che il padre gesuita tenne in arabo «impeccabile» tra il novembre 2011 e il giugno 2012 – poco prima dell’espulsione dalla Siria - il testo di padre Paolo Dall’Oglio può essere considerato Il mio testamento (Centro Ambrosiano, pagine 206, euro 19,50).

Ne è convinto, nella fulminea prefazione, papa Francesco: la Regola racconta «le intenzioni profonde che lo avevano mosso nel far rinascere un monastero siriaco antichissimo» recuperando la tradizione dei padri del deserto «insieme donandole il senso nuovo di una testimonianza dell’amore di Cristo nel contesto arabo-musulmano». Conversazioni con i suoi confratelli, annota sempre Francesco, che trasmettono «una grande passione» che diventa commozione nel «rileggere oggi alcuni passaggi profetici di un testo che tanto assomiglia a un testamento spirituale».

Ne Il mio testamento le parole del fondatore vanno al cuore dell’esperienza monastica che prese vita nel deserto siriano a partire dal 1991, facendo chiarezza sull’originalità e specificità spirituale dell’agire di padre Dall’Oglio, lasciando finalmente fuori campo il Paolo Dall’Oglio politico, quello espulso dal regime, come l’abuna Paolo “matrudzalan”, “cacciato e addolorato” che faceva la spola inquieto per la sua terra d’elezione tra il Kurdistan iracheno e l’Italia, fino all’ultimo rientro in Siria nel luglio del 2013.

Un monachesimo radicale perché, sulle orme di Francesco, Ignazio e Charles de Foucauld, la comunità che nasce nel deserto non è «per rafforzare le Chiese d’Oriente nel confronto con i musulmani, il mondo, i sionisti». E ancora, proseguendo sull’aspro e polemico crinale dell’ecclesialmente scorretto, padre dall’Oglio afferma che «non fa per noi una persona che non abbia profondamente sperimentato di essere una persona fallita, peccatrice, repressa, cattiva, rifiutata, e che Dio l’ha salvata per mezzo di Gesù Cristo». Miseria e misericordia, sincere e aspre come il deserto, luogo geografico e teologico della nascita del monoteismo, e collocando la piccola comunità di monaci e monache a cui «è andata male» in una sincera obbedienza allo Spirito nel corpo della Chiesa. Una obbedienza fino al dolore e una gioia che è «virtù e grazia».

Sintesi molto originale, non facile da codificare e di non immediata comprensione, specie per noi cristiani d’Occidente: una Regola, si può intuire, nel suo sperimentarsi motivo pure di contrasti e incomprensioni – dal 1992 al 1997 la sospensione canonica dalla Compagnia di Gesù di Dall’Oglio, per esserne poi pienamente riabilitato – ma che partendo senza mediazioni dall’insegnamento conciliare della “Nostra Aetate” si sente chiamata a vivere il dialogo interreligioso con una amore privilegiato, viscerale viene da dire, per l’islam: «Lodiamo Dio per ciò che di luce c’è nel Corano, lodiamo Dio e riconosciamo che Dio rivela le sue luci a chiunque egli voglia» preferendo gli umili evangelici.

«Chiediamo a Dio di mostrarci le luci che ha posto in questo paniere di significati che è il Corano, anche se ci imbattiamo nella lettera del rifiuto coranico della verità di Cristo, che è una verità biblica», affermava padre Dall’Oglio nelle sue ultime conferenze. Una vocazione a vivere – secondo il titolo di un paragrafo della regola – «l’incarnazione della fede in Isa al-Masih (Gesù Cristo nel Corano, ndr) nel mondo arabo-islamico». Per capire l’origine di questo “estremismo del dialogo” bisogna andare forse alla tradizione missionaria dei gesuiti, a san Francesco Saverio e al viaggio in Asia nelle Chiese in dialogo con l’islam di Filippine, Indonesia e India che padre Dall’Oglio visitò nel ’91 prima di iniziare l’esperienza di Mar Musa: illuminante il racconto di padre Paolo, sempre dalle sue conferenze, che volle sdraiarsi accanto alla tomba di un gesuita italiano di nome Francesco vissuto nelle Filippine, simbolo di una volontà di inculturazione della fede in ogni contesto possibile.

Il rischio e l’obbedienza, tutta ignaziana, che un decennio dopo il rapimento di padre Dall’Oglio vive ancora. La nomina a vescovo di Homs di Jacques Murad, il primo seguace di padre dall’Oglio a Mar Musa, è la conferma dell’autenticità della sua profezia. E soprattutto il voto speciale di badaliya, cioè di «amare i musulmani e offrire la vita per la loro salvezza» continua a vivere oggi, nonostante la perenne tragedia politica e umanitaria della Siria, nella piccola comunità di monaci e monache di Mar Musa.


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