domenica 17 gennaio 2016
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«Se Gesù Cristo è ebreo per sempre, allora la conoscenza del mondo da cui Egli proviene aiuta a capire più profondamente quello che Egli è stato, ciò che ci ha detto e donato». L’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, non ha dubbi. «Si è meglio cristiani se si conosce e si ama l’ebraismo. Aggiungo che non si può essere veramente cristiani senza questo amore e questa conoscenza ». Proprio l’approfondimento delle radici comuni fra la Chiesa cattolica e il popolo eletto è la sfida della Giornata di riflessione ebraico-cristiana in programma oggi. L’arcivescovo teologo, nelle vesti di presidente della Commissione episcopale Cei per l’ecumenismo e il dialogo, firma insieme con il rabbino Giuseppe Momigliano il sussidio Cei per l’iniziativa. Al centro la decima Parola del Decalogo: Non desidererai. «Essa – sottolinea Forte – riassume l’esigenza profonda di rispetto, di attenzione a che l’altro possa esprimersi nella pienezza delle sue possibilità senza in alcun modo violare la sua libertà e così favorendo un esercizio armonico di essa in grado di creare rapporti autentici con tutti». Quest’anno si conclude il cammino decennale intorno ai Comandamenti che dal 2006 sono stati meditati durante le Giornate. «Non siamo voluti entrare in questioni strettamente esegetiche – afferma l’arcivescovo – ma abbiamo privilegiato un approccio che potesse facilitare la comprensione delle dieci Parole illuminate anche dal legame fra ebraismo e cristianesimo. Perché, come dice un recente Documento della Commissione della Santa Sede per i rapporti con l’ebraismo, la fede del popolo dell’Alleanza non è qualcosa di esterno al cristianesimo: la relazione con l’ebraismo va considerata un dialogo di famiglia. E l’ebraismo è la santa radice del cristianesimo che resterà tale sino alla riconciliazione finale. D’altro canto, co- me ricordano anche i rabbini d’Italia, il cristianesimo è un’esplicitazione che porta la fede biblica al mondo intero come messaggio universale nella luce dell’ebreo Gesù, che i cristiani riconoscono come il Figlio di Dio».  Le tavole della Legge consegnate a Mosè sono un terreno di incontro fra le due fedi. «Il fatto che nella tradizione ebraica il Decalogo sia chiamato le dieci Parole – nota il presule – ci fa capire come esso sia un’esplicitazione dell’unica Parola di Dio con cui l’Eterno ha parlato all’umanità attraverso l’elezione del popolo d’Israele e poi, per noi cristiani, con l’incarnazione del Figlio. Tutte le voci del Decalogo richiamano all’atteggiamento fondamentale di ascolto nei confronto dell’Altissimo e all’accoglienza del suo dono, nella condivisione e nel reciproco rispetto dei beni che vengono da Dio. Ecco il messaggio che intimamente unisce ebrei e cristiani: siamo il popolo della Parola, della Parola di Dio rivolta agli uomini. Questo, ad esempio, è completamente diverso rispetto alla concezione islamica della Rivelazione: il Corano è un testo disceso dal cielo, di cui non si fa ermeneutica; mentre per ebrei e cristiani la Parola di Dio entra nella storia e ha bisogno di essere sempre nuovamente interpretata perché si stabilisca quel ponte comunicativo fra il cuore di Dio che parla e il cuore dell’uomo che ascolta». L’appuntamento di quest’anno è contrassegnato dell’incontro di papa Francesco con la comunità ebraica di Roma. «Se la visita di papa Wojtyla fu un’apertura storica e se quella di papa Ratzinger è stata un approfondimento teologico e spirituale del rapporto fra ebrei e cristiani – sostiene Forte –, la visita di Francesco è caratterizzata dalla ricchezza di partecipazione anche personale ed emotiva di questo Papa al dialogo con l’ebraismo. La Cattedrale di Buenos Aires è l’unica al mondo in cui c’è all’interno un memoriale della Shoa, proprio a dire la stima che Bergoglio nutre verso gli ebrei. Ebbene nella personalità di Francesco l’intera Chiesa cattolica viene chiamata a riscoprire la fecondità del rapporto con Israele».
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