Padre Eugenio Melandri (Ansa)
Se n’è andato l’altro ieri, a settantun anni, il 'prete rosso'. Padre Eugenio Melandri, il “missionario disobbediente” una vita vissuta - avrebbe detto Pasternak - sino all’ultimo istante. Si è spento dopo essere tornato a presiedere l’Eucaristia domenica 20 ottobre. Gravemente ammalato ha potuto farlo aiutato durante la celebrazione dai confratelli saveriani (all’Istituto di San Pietro in Vincoli a Ravenna). E l’ha fatto a trent’anni dall’ultima volta grazie a papa Francesco. Già. Una vita singolare quella di Melandri. Spesa tra i più deboli e con una dedizione straordinaria alla causa della pace. Singolare non meno del suo “ritorno“ al sacerdozio dopo quasi tre decenni di impegno politico, senza mai però abbandonare la missione.
Quando – mesi fa – in un incontro con papa Francesco a Santa Marta insieme al confratello monsignor Giorgio Biguzzi (vescovo di Makeni in Sierra Leone) ed altri poteva motivare al Pontefice la sua lontana scelta di scendere direttamente sul terreno politico per farsi carico meglio dei bisogni degli ultimi, dell’Africa, per far sentire meglio le denunce contro i mercanti di morte, per promuovere la pace, il Pontefice gli ha detto: «Hai fatto bene». Anzi questo il suo racconto più preciso affidato ad uno dei tanti post che titolava “Gracias a la vida”: «Alla fine della Messa Francesco si toglie i paramenti in sacrestia, si ferma qualche minuto ancora a pregare in chiesa, poi si mette all’uscita, in modo da poter salutare tutti. Cerco di essere il più fedele possibile nel raccontare questo incontro: padre Silvio si presenta come missionario saveriano (è in carrozzella da 50 anni ed è stato oltre 20 anni in Congo a Goma). Poi si rivolge al Papa e dice: “Questo è Eugenio Melandri. Un nostro fratello, uno dei nostri”. Io lo interrompo e dico: “Padre io ero un saveriano, ma ho dovuto lasciare perché mi sono candidato al Parlamento europeo e sono stato parlamentare”. Stavolta mi interrompe Silvio: “Ma ha sempre continuato a lavorare con noi e a fare le stesse cose che faceva prima”. “Si - rispondo io - è vero, ho sempre continuato a fare le stesse cose”. Papa Francesco mi prende una mano, me la stringe forte e mi sorride. Poi mi dice: “Hai fatto bene”». Poco dopo il “reintegro” a tutti gli effetti come sacerdote della Chiesa cattolica, incardinato nella diocesi di Bologna dal cardinale arcivescovo Matteo Zuppi.
Nato a Brisighella (provincia di Ravenna) nel 1948, entrato fra i Saveriani a ventisei anni, Melandri aveva diretto la rivista “Missione oggi” ed era stato sospeso “a divinis” dopo la candidatura e l’elezione al Parlamento Europeo per Democrazia Proletaria nel 1989 (poi al Parlamento italiano per Rifondazione Comunista). Tra i fondatori di “Chiama l’Africa”, direttore della rivista “Solidarietà internazionale” del Cipsi, è stato anche assessore alla Cultura nel Comune di Genzano (Roma).
Attivissimo nelle missioni del terzo mondo, grande amico di don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta leader del pacifismo cattolico, a partire dagli anni ’80 era stato impegnato a Korogocho, periferia di Nairobi, assieme al comboniano Alex Zanotelli, successivamente rientrando con lui in Italia. Dopo Strasburgo, la crisi. Poi la riammissione al sacerdozio arrivata anche grazie ai vescovi Zuppi, Biguzzi, e ad altri amici e confratelli, insieme alla gioia di tornare a celebrare dopo la consolazione di quelle tre parole di Bergoglio: «Hai fatto bene» . Poi la vittoria del “drago” (come anche padre David Turoldo chiamava il cancro) dopo vari giri di chemioterapia, i dolori insopportabili che non gli avevano mai fatto perdere la serenità di sempre. Padre Melandri ci ha «insegnato a vivere con passione, ma anche come si muore. Con la gioia dentro...» ha detto ieri don Renato Sacco coordinatore di Pax Christi. Aggiungendo: «sono convinto.....che ci sia un disegno della Provvidenza dietro alla parabola di vita di Eugenio». Ci sarà tempo per ripercorrere le tappe di questa biografia, comprese certe scelte forse più sofferte di quanto si creda. Ci sarà tempo per capire sino in fondo il senso vero di quelle tre parole arrivate per lui come dono inatteso: «Hai fatto bene».