sabato 31 agosto 2013
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Ogni pomeriggio, prima di incominciare il suo ministero di confessore in Duomo, monsignor Giacomo Mellera sosta qualche minuto in preghiera sulla tomba del suo «antico superiore» e arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini «per chiedere un aiuto e un sostegno dall’alto per la mia vita di sacerdote». A un anno dalla morte di Carlo Maria Martini affiorano dalla mente di Mellera, classe 1931, storico cerimoniere del gesuita che fu arcivescovo dal 1980 al 2002, tanti ricordi, aneddoti che lo legano alla figura del cardinale biblista: «La prima volta che lo incontrai fu nel 1975 quando lo accompagnai a Milano ad una conferenza sulla Risurrezione (il tema tra l’altro della sua tesi di laurea). Mai avrei immaginato che, pochi anni dopo, sarebbe divenuto il nostro arcivescovo e io il suo cerimoniere…». Del ministero in terra ambrosiana di Martini monsignor Mellera fa emergere aspetti poco conosciuti del suo «superiore»: l’attenzione alla liturgia, all’adorazione eucaristica («fatta sempre in silenzio e lontana dal chiacchiericcio delle sacrestie»), al primato della Parola di Dio e a «quei lunghi viaggi in macchina dove l’arcivescovo scriveva, leggeva e pregava o di quando, stremato dalle visite pastorali, recitava il breviario a tarda sera…». Ma delle «tante reliquie della memoria di Martini» come le «lettere scritte, quasi sempre a mano, da Galloro, Gallarate e Gerusalemme» monsignor Mellera – ci confida – non si aspettava di essere addirittura citato nel testamento del cardinale: «Non solo ha voluto ricordare il suo storico collaboratore ma mi ha voluto regalare un prezioso anello raffigurante la Madonnina; un oggetto che io ho voluto consegnare all’attuale arcivescovo Angelo Scola per potersi così ricordare di me e di Martini…». Dell’intenso amarcord di questa collaborazione trentennale Mellera torna con la mente agli ultimi anni di Martini, arcivescovo emerito: «Ricordo come era contento di vivere a Gerusalemme, di dedicarsi agli esercizi spirituali e di come amasse in particolare in Palestina il luogo della Trasfigurazione di Gesù. Mi colpì che tra le poche cose che portò con sé via da Milano, fu una croce d’ulivo che gli avevo regalato al momento del suo congedo». Un legame quello di Martini con Milano, secondo Mellera, mai spezzato. «Pur vivendo lontano a Gerusalemme o a Galloro – rivela – ha continuato a celebrare la Messa in rito ambrosiano, quasi a non dimenticare mai il suo antico legame con la sua diocesi di elezione. Mi ricordo che negli ultimi anni da arcivescovo mi confidò in un’amabile lettera: “Caro don Giacomo sei riuscito anche a farmi cantare in rito ambrosiano…”; era convinto che una celebrazione senza il canto fosse morta. Rammento ancora la sua ironia, di quando andavamo in visita dai gesuiti di San Fedele per il tradizionale Te Deum di fine anno, nel “non badare troppo alla trasandatezza liturgica dei miei confratelli”…». Un’attenzione quella di Martini, al culto divino, ai paramenti sacri vissuta anche nel rispetto della gloriosa storia della Chiesa ambrosiana. «Mi colpì quando indossando per una festa dell’Epifania una croce d’oro, appartenuta a Montini e dono di Giovanni XXIII – osserva – un giovane gli chiese se avesse paura di essere contestato per questo oggetto, a suo dire sfarzoso, e la sua ferma risposta: “Questo è il suo posto giusto”». Anni dunque che per Mellera gli permisero di stare accanto a Martini e di vederlo a diretto contatto con il suo gregge: «Nell’incontro con la folla era, allo stesso tempo, parco e generoso; si concedeva senza esagerazione; mi confidava, a volte,: “non ho il carisma del cardinale Schuster”; quando la gente insisteva per incontrarlo lui replicava: "c’è un modo di incontrare il vescovo, vederlo". Voleva con questo suo stile invitare i fedeli a non vivere il "culto della personalità", ad abbattere gli idoli, ma di andare all’essenziale e a cercare soprattutto Gesù nella loro vita». Lo sguardo di Mellera va agli ultimi anni della vita del cardinale, alle sue visite all’Aloisianum di Gallarate o di quando Martini venne a Milano, già minato dalla malattia e in carrozzina, per rendere omaggio al feretro del cardinale Giovanni Saldarini, (a quelle parole dette con un filo di voce: «Caro don Giacomo non sei voluto venirmi a trovare, sono venuto io a trovarti»). «Lo stargli accanto in tante occasioni – è la riflessione finale di Mellera – mi ha permesso di assaporare il modo con cui si preparava alla Messa, alle letture della Bibbia e al silenzio con cui preparava questi momenti solenni, in modo mai affrettato. Forse anche grazie alla sua formazione di gesuita e di biblista lo ricordo, ancora oggi soprattutto, per noi ambrosiani, come un maestro di vita spirituale».
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