mercoledì 22 agosto 2012
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Si parla dell’infinito, solo posti in piedi. Succede a Rimini, nella giornata in cui tra gli stand del Meeting fa la sua comparsa don Julián Carrón, il sacerdote spagnolo che lo stesso don Giussani volle designare presidente della Fraternità di Comunione e liberazione. Presenza discreta e silenziosa, quella di Carrón, suggellata da un breve incontro con il monaco buddhista Shodo Habukawa. A tenere banco in una sala affollatissima è, del resto, un altro spagnolo, don Javier Prades López. Si presenta come un pretino smilzo e simpatico, ma il curriculum accademico è impressionante: rettore dell’Università San Dámaso di Madrid, membro della Commissione teologica internazionale, direttore della “Revista Española de Teología” e via elencando. Al Meeting si considera di casa e infatti la padrona di casa, Emilia Guarnieri, si fida a tal punto da affidargli la relazione centrale, il cui titolo riprende la frase del Senso religioso che fa da emblema all’intera edizione 2012: “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”.Don Javier annuncia sorridente che il percorso si snoderà in tre tappe e che, come accade al Tour de France, la salita arriva per ultima. Poi inizia esibendo le pezze d’appoggio della sua ricognizione sulla domanda d’infinito nella cultura contemporanea. Passa in rassegna le sculture dell’artista basco Eduardo Chillida e la testimonianza del romanziere argentino Ernesto Sabato, che si è sempre rifiutato di considerare la sua nostalgia di assoluto come un rigurgito di sentimentalismo infantile. Si tratta, al contrario, dell’attesa di una rivelazione che ancora non si è compiuta. Perfino nel repertorio dei Los Secretos, epocale gruppo pop-rock della movida anni Ottanta, affiora un interrogativo simile: «Deve esistere qualcosa di diverso da quello che ho visto a ogni angolo di strada…». La risposta viene da un’altra canzone spagnola, non a caso molto amata da don Giussani, che ne fornì un’interpretazione puntualmente ripresa da Prades López. È la celebre Sevillanas del Adiós, con l’immagine struggente della barca che si allontana oltre l’orizzonte, la medesima linea d’infinito da cui il cristiano scruta il manifestarsi del Salvatore. E con questo siamo già alla seconda tappa, che il teologo dedica al modo in cui il cristianesimo modella questo bisogno universale. Una novità che esercita un’attrattiva irresistibile, una coscienza di sé che diventa offerta, l’esperienza della comunità, il dono della misericordia. No, non siamo ancora alla montagna, che si presenta all’improvviso nel tratto finale della volata. Il mondo di oggi è ancora disposto ad accettare che la realtà della fede riguardi ogni uomo oppure dobbiamo rassegnarci al regime di privatezza per cui credere si crede, ma senza disturbare troppo? La soluzione proposta dallo scientismo <+corsivo>à la page<+tondo> sarebbe quest’ultima. Peccato che, come sostiene Habermas, questa sia cattiva filosofia, non scienza. La pendenza si accentua, però è qui che Prades López dà il meglio. «Affidarsi ai nudi dati è un’illusione – mette sull’avviso – perché perfino le immagini osservate al microscopio necessitano della coscienza del ricercatore per essere interpretate. E un tumore, di per sé, non è nulla, è un semplice ammasso di cellule. Una volta posto davanti alla nostra consapevolezza spirituale, invece, diventa tutto per noi». E con questo si torna alla domanda originaria, quella che il Salmo 8 sintetizza in un grido disperato: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi?». Per trovare una spiegazione occorre prestare ascolto a un altro canto, il Salmo 139, in cui l’uomo riconosce di essere stato fatto «come un prodigio». Non è la fine della ricerca, è solo l’inizio dell’unica storia che ancora oggi valga la pena di essere raccontata.
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