sabato 15 dicembre 2018
L'arcivescovo Marchetto mette in guardia dal rischio di un'ermeneutica della discontinuità. La risposta di monsignor Gronchi
La cerimonia di apertura del Concilio Vaticano II

La cerimonia di apertura del Concilio Vaticano II

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento dell’arcivescovo Agostino Marchetto, già segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, tra i più attenti e noti studiosi del Concilio Vaticano II, in merito a un articolo uscito su “Avvenire”, il 4 dicembre scorso. A firmarlo Maurizio Gronchi docente di Cristologia alla Pontificia Università Urbaniana, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi. La sua analisi era tra i contributi dedicati alle sfide che attendono il vivere comune nei prossimi cinquant’anni, dall’economia alla bioetica, alla vita della Chiesa.

LA LETTERA Lumen gentium, non è altro rispetto ai testi conciliari la Nota esplicativa previa

Caro direttore,

scrivo per il bene che voglio ad 'Avvenire' anche se a volte non sono d’accordo con quanto pubblica. Ma non lo comunico. Questa volta però lo faccio perché la cosa riguarda il mio amato Vaticano II, la sua interpretazione, o ermeneutica che dir si voglia, ed è una cosa seria dato che l’ultimo Concilio è il punto di riferimento fondamentale della Riforma voluta da Papa Francesco e non solo. Lo ho largamente illustrato nel mio 'La riforma e le riforme nella Chiesa. Una risposta' (Lev). Il 4 dicembre 2018, in un accattivante articolo del nostro giornale, dal titolo «Così nasce la Chiesa di domani», Maurizio Gronchi si riferiva alla sinodalità che «tocca la questione della collegialità episcopale, tema ancora ingessato nel quadro della 'Nota esplicativa previa' di Lumen Gentium...». Credo che l’Autore richiami qui un punto particolarmente delicato poiché, con tale 'Nota', san Paolo VI ha presentato ai Padri conciliari i termini in base ai quali essi avrebbero votato. E non c’era in essa estraneità con i testi conciliari, con le distinzioni che pure facevano tra collegialità in senso stretto e largo, affettiva ed effettiva, come dichiarò lo stesso Philips e finanche Schillebeeckx. Quindi se si «ingessa» e non si interpreta secondo tale 'Nota', bisogna essere coscienti che si segue «un’ermeneutica della rottura e della discontinuità e non quella della riforma e della continuità dell’unico soggetto Chiesa », in cui il binomio 'primato ed episcopato' è inscindibile. In ogni caso, pur accettando la possibilità di uno sviluppo dottrinale, esso dev’essere omogeneo e organico. Mi fermo qui aggiungendo solo che nel primo discorso all’inizio del Sinodo sulla Famiglia papa Francesco attestò egli stesso che tra i gradi riferentisi alla gerarchia due sono di istituzione divina: c’è il Successore di Pietro e c’è il Vescovo nella sua propria diocesi. Gli altri gradi (o corpi) intermedi sono di istituzione umana. Ecco, per concludere, direi che oggi c’è la tendenza a vedere maggiormente i corpi intermedi dimenticando (il famoso et...et) quelli di istituzione divina. Peraltro non possiamo procedere come se non ci fosse stato il Vaticano II che finalmente, nei suoi testi, ha superato bellamente e con un consensus episcopale straordinariamente elevato (quasi all’unanimità) le tensioni papato-episcopato nel corso dei secoli precedenti.

Agostino Marchetto, arcivescovo


LA RISPOSTA Se fu redatta e approvata è perché c'era necessità di un aiuto interpretativo

Il direttore di 'Avvenire' mi passa la sua lettera e io la ringrazio, gentile e caro arcivescovo, per l’opportunità di chiarire il mio pensiero a proposito della 'Nota esplicativa previa di Lumen gentium'. Il riferimento a questa Nota indica soltanto quanto essa attestava riguardo a una quaestio disputata all’interno dell’assise conciliare. Ovvero, la necessità di un approfondimento, dato che non vi era un consenso consolidato sulla comprensione dei termini utilizzati circa la collegialità episcopale, nel capitolo terzo della costituzione De Ecclesia. Se non vi fosse stata la necessità di un auxilium all’interpretazione del testo, la Nota non sarebbe stata redatta e approvata. Inoltre, quanto al suo contenuto, lo stesso Gérard Philips scrisse: «Per quanto impressionante, non apporta alcun elemento nuovo al testo votato dal Concilio» [Note pour servir à l’histoire de la NEP (LG III), in IDOC- International 8 (1969), 5173]. Il termine 'ingessato', perciò, si riferisce a un tema che attendeva di essere ulteriormente approfondito. Il mio accenno, dunque, vale principalmente a mettere in evidenza come, alla luce della recente costituzione apostolica Episcopalis communio, l’identificazione della sinodalità come categoria comprensiva della Chiesa tutta rappresenti un contributo allo sviluppo armonico della dottrina ecclesiologica, secondo «l’'ermeneutica della riforma', del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa » (Benedetto XVI, 22 dicembre 2005). Dal momento che il collegio episcopale cum et sub Petro si comprende all’interno del popolo di Dio, al servizio del quale è stato posto, viene meglio chiarita una questione che il Concilio non aveva trattato, e che la circolarità tra sinodalità, collegialità e primato - affermata da Episcopalis communio - approfondisce e sviluppa. Come scrive Dario Vitali: «La collegialità è solo una parte del discorso più ampio della sinodalità: il limite più grande della dottrina sulla collegialità proposta dal Concilio che costituisce anche uno dei nodi più grossi dell’intera questione - è la sua declinazione assoluta, senza alcun riferimento al popolo di Dio e alle sue funzioni, come dimostra il silenzio totale della costituzione - e di tutto il Concilio - sulla sinodalità della chiesa» [ Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Magnano (BI) 2014, 62].

Maurizio Gronchi, Pontificia Università Urbaniana

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