venerdì 23 dicembre 2022
A colloquio con il cardinale che guida l’arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e da luglio anche la diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza
Il cardinale Augusto Paolo Lojudice fra la “sua” gente

Il cardinale Augusto Paolo Lojudice fra la “sua” gente

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Da alcuni giorni ha accolto in diocesi due famiglie siriane, nove persone in tutto, tra loro alcuni bambini «con patologie importanti», come riferisce il suo portavoce, pochi mesi dopo aver portato in terra toscana Mustafà, il piccolo privo di arti anch’egli proveniente dalla Siria le cui immagini avevano commosso il mondo. Che alla sua porta si venga sempre accolti non è una sorpresa: dell’apertura a tutti l’arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, Augusto Paolo Lojudice, ha fatto una scelta di vita, con uno stile pastorale che è lo specchio della sua personalità: in ascolto, come proteso verso l’altro, curioso delle novità, disponibile con chiunque, diretto e sincero, sempre con la vivacità di chi spende la vita tra la gente. Creato cardinale nel 2020, Lojudice – 58 anni, prete da 33, da luglio vescovo anche di Montepulciano-Chiusi-Pienza – è una delle figure che nella Chiesa italiana stanno cercando di declinare lo spirito sinodale in modo più preciso e creativo. Lo incontriamo a margine del recente Festival della salute, organizzato da istituzioni pubbliche senesi, cui ha collaborato anche la diocesi.

Che cosa le ha insegnato per il ministero di arcivescovo e il percorso sinodale la sua lunga esperienza nelle parrocchie romane?

A Roma la mia prima parrocchia – fine anni ‘80 – era frequentata dal ceto medio, ma c’era anche gente che viveva nelle baracche. E allora me ne andavo con i ragazzi a dare una mano a chi viveva in quella estrema precarietà, per fare una riparazione, o passare una mano di vernice. Ho sperimentato che non dobbiamo fare chissà cosa: solo accorgerci di quello che c’è attorno a noi, vedere dove ci sono problemi, e agire. Nella seconda mia parrocchia romana, all’Eur, zona più benestante, inventai un altro tipo di azione con i giovani proponendogli di andare oltre il quartiere, a conoscere la gente che frequentava la mensa Caritas, i bambini delle case-famiglia, i carcerati. Poi fui mandato a Tor Bella Monaca, dove c’era tutto un mondo di povertà, facendolo incontrare a chi non si rendeva conto di quello che gli accadeva attorno. Infine, l’incarico in Seminario, portando i seminaristi nei campi zingari, e anche tra le prostitute, perché dobbiamo saperci mettere in relazione umana con chiunque: andare incontro, sorridere, ascoltare, parlare…

E quando è arrivato a Siena che cos’ha scoperto?

Qui, come a Roma, intendo l’accoglienza come un semplice guardarsi attorno, interessarsi, cercare di capire, vedere quali sono le risorse a disposizione. Non possiamo implodere, dobbiamo “esplodere” con le forze che abbiamo, e che sono straordinarie. L’arte, la spiritualità, la tradizione di Siena sono ricchezze impareggiabili, ma non ci si può “morire dentro”. Il metodo di “accorgersi” e agire funziona, sempre, con tutte le necessità che spesso non vediamo ma che ci sono. Nascono reti solidali mettendo insieme gente anche diversissima per provenienza e ispirazione: la carità è una risorsa che è data a tutti. Forse non risolveremo i problemi, ma possiamo affrontare le emergenze prendendo per mano chi sta affondando, mentre stimoliamo le istituzioni: perché un altro ruolo della Chiesa è quello di Giovanni Battista, che sturava le orecchie di chi poteva decidere.

Con quale realtà si sta confrontando?

Questa città ha l’orgoglio di essere un piccolo mondo a parte, con una certa tendenza a chiudersi in sé stessa, ma osservo sempre che le sue porte sono tutte aperte. Nella lettera di saluto alla diocesi dopo la nomina ad arcivescovo nel maggio 2019 ricordai la donna che nel Vangelo rompe il vasetto di alabastro per Gesù: se non l’avesse fatto, l’aroma non avrebbe riempito la stanza. Per me Siena è come uno scrigno prezioso, ma se non viene aperto non effonde il suo profumo.

E ora il percorso sinodale: che idea si sta facendo?

Che non va considerato un peso, un problema, “una cosa in più” da fare. C’è chi ha colto un’occasione, ma credo che chi invece prova maggiore fatica – perché non capisce bene cosa sia, o a cosa serva – è perché non è ancora riuscito a intravedere in questa opportunità che il Papa ha così strenuamente voluto, altro che uno dei classici eventi ecclesiali cui siamo abituati da sempre, e che peraltro ci riescono anche piuttosto bene. È un primo problema strutturale: nel cammino della Chiesa pensiamo in funzione di cose da organizzare. E chi trova difficoltà con il Sinodo è come se si aspettasse un altro evento da mettere in piedi, che si celebra e si chiude. Ma nella Chiesa è un problema se ci limitiamo a impostare eventi.

E il Cammino sinodale in Italia come si sta sviluppando?

Se lo chiamiamo Sinodo a mio giudizio siamo già fuori strada, perché non è quello che il Papa ha chiesto alla Chiesa. Occorre un’altra prospettiva, che è quella di metterci in un Cammino sinodale permanente, facendo lavorare insieme tutte le componenti della Chiesa.

Vuole dire che non succede?

Forse non ci rendiamo conto che saremmo una grande forza ma spesso andiamo ciascuno per suo conto, una dispersione di energie terrificante. Dovremmo invece cogliere il valore della proposta sinodale che è anzitutto di metodo. I contenuti li conosciamo, il deposito della fede non cambia, il Catechismo per fortuna è già stato scritto. Ciò che conta ora è come si realizza il percorso. Il Cammino sinodale significa far percepire costantemente alle persone che quello che fanno lo devono fare insieme, creando ponti e reti. Se ci mettiamo nella prospettiva di dover fare cose “in più” non ne usciremo, perché chi fa poco continuerà a far poco, e chi fa tanto avrà la sensazione di dover fare ancora di più, e quindi di correre dietro a qualcosa. Invece non dobbiamo far nulla in più: cerchiamo piuttosto di fare tutto assumendo lo stile e il metodo del lavorare insieme, partendo dall’ascolto.

Che cos’ha insegnato l’esperienza della pandemia alla Chiesa?

Ognuno ha vissuto l’emergenza in modo diverso, anche piegandosi su sé stesso, oppure sminuendola, o accusandoci di aver chiuso le parrocchie senza motivo, chi continuando a imporre regole ormai superate… Credo che ora si raccolgano i frutti di come si è vissuta la crisi pandemica: non è facile che la gente torni dove ha trovato chiusure e limiti oltre ogni necessità. Ora chi ha cercato di usare tutti i sistemi immaginabili, anche tecnologici, per non perdere per strada nessuno farà certamente fatica – e chi non la fa? – ma riuscirà a recuperare con meno difficoltà la gente che sembrava essersi dispersa.

Che cosa succederà adesso?

Certo, la pandemia ha dato una bella “scrollata”… Ci siamo accorti di esserci mossi a lungo come se il tempo non fosse passato, quasi che la società attorno a noi fosse rimasta immutabile come certe nostre proposte, molti luoghi ecclesiali, o alcune abitudini. Proviamo a chiederci: ma un ragazzino di questo tempo viene volentieri nei nostri ambienti? Me lo domandavo appena prima della pandemia: e se la soluzione fosse chiudere tutto per un paio d’anni e approfittarne per studiare, e poi ripartire? Non l’avessi mai pensato, è successo davvero… ma non è che poi abbiamo ripensato il nostro modo di fare. Vedo che siamo presi di nuovo da tutta la nostra quotidianità, come se ci accontentassimo di una riproposizione delle stesse cose nello stesso modo. E ci accorgiamo che la nostra proposta si prosciuga. Ma spero che riusciremo a darci una vera occasione per riflettere sulla modalità di offerta.

E i giovani?

Li coinvolgi se li aiuti a vivere in un percorso. Se non creiamo un ambiente in cui i bambini, che poi diventano ragazzi, adolescenti, giovani, vanno volentieri trovando un educatore che li accoglie, un sacerdote amico, un sorriso ad attenderli, ma perché dovrebbero venire da noi? Eppure tanti giovani hanno ancora il desiderio profondo di vivere una vita serena, gioiosa, e anche carica di spiritualità. È questo, in fondo, ciò che tutti cercano. Alcuni ci arrivano solo nei momenti di disperazione, e allora tutti tornano, anche quelli mai visti, ma non importa come e perché vengono: bisogna prendere le situazioni dove sono e come si presentano, è così che si attivano percorsi. La vita poi porterà questi ragazzi dove vuole, ma intanto noi da educatori e sacerdoti avremo fatto il nostro dovere: che è quello di annunciargli il Vangelo.

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