mercoledì 29 novembre 2023
Sugli arcipelaghi a rischio c’è “solo” l’1% della popolazione mondiale, ma pagano le conseguenze di tutti. E ora vogliono farsi sentire. Kiribati, Maldive e Marshall affonderanno entro fine secolo
Una veduta aerea delle isole Seychelles

Una veduta aerea delle isole Seychelles - .

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Piccoli ma molto determinati. Sono gli Stati insulari in via di sviluppo (Sids) che alla Cop28 in partenza, domani, a Dubai promettono di farsi sentire. Il gruppo dei cosiddetti “Great Ocean States” conta 39 membri a pieno titolo e 18 associati. Non tutti sono isole (vedi Belize, Guyana e Suriname) e, soprattutto, non tutti sono poveri. Del “club” fanno parte realtà estremamente indietro nella classifica della ricchezza, come Guinea-Bissau, Haiti e Timor- Est, ma pure paradisi fiscali del calibro di Singapore, Fiji, Samoa e Bahamas. Insieme rappresentano comunque solo l’1% della popolazione tant’è che le emissioni di carbonio che emettono nell’atmosfera superano, nel complesso, di poco lo zero. Eppure, sono tra i protagonisti più importanti del summit. Il loro attivismo è dettato da una questione esistenziale. Dal clima, in breve, dipende non solo il loro sviluppo ma la loro stessa sopravvivenza. L’innalzamento del livello degli oceani rischia di farli sprofondare negli abissi. Secondo alcune statistiche le isole di Kiribati, Maldive e Isole Marshall affonderanno entro la fine del secolo.

Le conseguenze del riscaldamento globale, comprese le tempeste tropicali sempre più violente, sono per i Sids una minaccia grave più di qualsiasi controversia geopolitica. È questo quello che li aiuta a farsi largo tra i grandi. Anche a costo di gesti eclatanti, già raccontati dai media, come la riunione del Consiglio dei ministri delle Maldive tenuta sott’acqua nel 2009 o il discorso con i piedi a mollo del ministro degli Esteri di Tuvalu tenuto nell’ambito della Cop26. Trovate che ne amplificano visibilità e potere negoziale. Già in passato hanno dimostrato di essere degli ossi duri. Il loro ruolo è stato fondamentale per arrivare, nel 1992, alla definizione del primo trattato internazionale sul clima. Nel 2015, a Parigi, hanno trascinato la comunità internazionale a contenere il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Alla Cop27 dello scorso anno, ancora, sono riusciti a formalizzare la discussione di un capitolo delicatissimo, quello dei risarcimenti per le perdite e i danni subiti dai Paesi poveri a causa del cambiamento climatico, trascurato per trent’anni. In quella circostanza è stato normalizzato l’obbligo dei maggiori emettitori di carbonio del mondo a finanziare un fondo ad hoc. Tra i nodi che dovranno essere risolti a Dubai c’è l’entità dello stanziamento, le fonti e i criteri di ammissibilità alle risorse dei Paesi beneficiari. I grandi del Pianeta, ci si chiede, li staranno a sentire? È da tempo che potenze del calibro di Cina e Stati Uniti sembrano più interessati ad ascoltarli. Ciò avviene, secondo gli esperti, perché il Pacifico e l’Indiano, gli oceani di cui i piccoli Stati insulari sono i “padroni di casa”, rappresentano un’area nevralgica per il commercio internazionale. Teatro strategico della competizione tra i giganti che le comunità locali devono tenere libero da contrabbando, traffico di armi e pesca illegale.

È questo il motivo per cui Washington e Pechino tentano, talvolta in modo goffo, di tirarli dalla propria parte. I piccoli Stati insulari stanno da giorni presidiando le trattative che anticipano l’apertura ufficiale della Cop28 monitorando, in particolare, i lavori che porteranno all’aggiornamento del bilancio globale delle emissioni di gas serra, un meccanismo di revisione degli impegni già presi previsto dagli accordi di Parigi. Il portavoce del gruppo, l’ambasciatore di Samoa, Fatumanava- o-Upolu III Pa’olelei Luteru, è stato chiaro: « È il momento di azioni concrete e risultati reali. È in gioco la nostra sopravvivenza». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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