giovedì 8 settembre 2011
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L’ultima passata di lucido, poi l’occhio dell’artigiano soppesa i mocassini tornati come nuovi. Ed è un caso trovarsi nella bottega di Luis Caroca Perez, quando il calzolaio di via Giovio confida che «sono di una persona importante», e ripone sul suo scaffale, in mezzo a tante altre, le scarpe del cardinale Dionigi Tettamanzi. Hanno battuto in lungo e in largo la diocesi più grande del mondo. Più di 2.250 uscite dalla curia di piazza Fontana, in nove anni, solo sul territorio diocesano, nel conto tenuto dall’ispettore di Polizia che lo scorta. Visite sempre in mezzo alla gente da cui «pareva non volersi staccare mai», informandosi di tutto e stringendo le mani a tutti, che sempre gli hanno chiesto: «Ritorni a trovarci».A volte non sono occorsi lunghi viaggi, per arrivare lontano. «È entrato nel cuore dei detenuti. Gli hanno detto con le lacrime agli occhi: ti vogliamo bene, perché sei sempre venuto qui»: don Alberto Barin, il cappellano di San Vittore, ripercorre le tante visite al carcere di San Vittore: «Non ha mai lasciato fuori dalla galera niente di sé. Lo sguardo attento, il sorriso, la mente intelligente che non ha avuto paura di sporcarsi dell’umanità così com’è, senza mai giudicare». Rivede «le sue mani che si allungano oltre le sbarre, che si lasciano afferrare e baciare, che ricevono lettere su lettere». E da quelle frasi scritte a volte in italiano incerto, l’arcivescovo ora emerito «si faceva provocare». Non arrivava con discorsi preconfezionati, ricorda il cappellano. «Risvegliava quell’umanità stanca. Si è fatto suo portavoce, fuori, attirandosi perfino critiche».Quante volte, a quante critiche il cardinale ha fatto spallucce dicendo «seguo solo il Vangelo». E intanto tracciava il solco, per la sua Chiesa. «Fin dall’inizio è stato una sorpresa di umanità e semplicità evangelica». A don Virginio Colmegna, direttore della Casa della carità, Tettamanzi non ha fatto «grandi discorsi», nel 2004, affidandogli con il cardinale Carlo Maria Martini quella fondazione che si sarebbe retta sulle proprie gambe nell’universo metropolitano delle emarginazioni: «Ci ha sempre accompagnati, abbiamo sentito il suo affetto, senza parole ma con i gesti». Come l’anno scorso al Triboniano, il grande campo rom. Il fango, la musica, i bambini, la mano del cardinale poggiata attraverso la finestra della roulotte su quella di una piccola che giocava a nascondersi. «È stato capace di trasformare quella visita in storia. Non è stata solidarietà generica, ma un incontro vero e una scelta di valore». A Natale arrivavano alla Casa di via Brambilla i suoi auguri e i dolci. «Era un modo di stare alla nostra tavola – racconta don Colmegna –. Una vicinanza che ci dava la carica per riscoprire che il nostro lavoro è una scelta che ha che a fare con il Vangelo. Sentivamo un mandato da realizzare: rileggere in questa città il bisogno di accoglienza». Accoglienza, apertura: le cifre di un ministero da tramandare anche ai preti giovani. Don Luca Magnani, 32 anni, è uno degli ultimi sacerdoti ordinati da Tettamanzi a giugno: «Ci ha raccomandato di essere preti per tutti, aperti a tutti, capaci di stare in parrocchia con lo sguardo oltre». Spesso presente per lunghi colloqui in seminario, sulle colline di Varese, ogni incontro volgeva su quel monito: «Sarete preti per il mondo intero, non solo per Milano». Un po’ sopra Lecco, verso la Valsassina, c’è un altro posto del cuore, per Tettamanzi. La Casa del clero per i preti anziani. «Non è mai accaduto che venisse da queste parti senza passare da qui», racconta il diacono Armando Comini. Per il cardinale quello è un luogo di pace, dove ritrovare anche chi lo ha formato. E magari tornare con il pensiero all’indimenticato don Pasquale Zanzi, il parroco di quand’era bambino, per il quale non manca mai la visita al cimitero. «Qui con voi – dice sempre agli anziani sacerdoti – mi sento a casa». Come a Carugo, nelle fugaci visite all’anziana mamma Giuditta, con un Crodino e una preghiera condivisi con la scorta e quella richiesta puntuale al figlio: «Dionigi, dacci la tua benedizione». Come in Turchia, per trovare l’amico nunzio apostolico monsignor Luigi Padovese, di cui piange ancora l’assassinio. Come quando a Busnago tra la folla trovava sempre “la Giannina” con una torta per lui. O all’Istituto dei ciechi, dove conosce i nomi di tutti a memoria, si presentava con l’abito rosso anche se l’occasione non lo richiedeva, per farsi veder bene da occhi che distinguevano appena il colore. E dovunque, ogni volta, senza che una sola stretta di mano andasse persa, la promessa è stata sempre la stessa: «Senz’altro tornerò».
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