domenica 3 aprile 2011
Il cardinale Cottier riflette sull’autentica eredità lasciata dal Pontefice a sei anni dalla morte: «Il suo segreto? Era un uomo di preghiera. Un profeta che sapeva ascoltare».
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Anche nel momento della morte Giovanni Paolo II «ha lasciato una grande pace, una fiducia e un abbandono che hanno sempre animato la sua vita, fin dagli anni giovanili». È questa, secondo il cardinale domenicano Georges Cottier, teologo emerito della Casa pontificia, una parte importante dell’eredità umana e spirituale lasciata da Karol Wojtyla, di cui ieri è stato ricordato il sesto anniversario dalla morte.Eminenza, che ricordo ha di quel giorno?Lo ricordo con grande commozione. Soprattutto per la testimonianza che ha reso nella grande sofferenza prima della morte. Mi colpì molto l’ultima sua apparizione, la domenica precedente quando l’emozione – i medici dissero che in realtà avrebbe potuto parlare – gli impedì di pronunciare le ultime parole. La pace che ci ha lasciato morendo nasce di certo dalla profonda fiducia, soprattutto nella Madonna come messaggera della provvidenza divina, con la quale ha vissuto l’intera sua vita. La sua è stata una vita cristiana, segnata anche dalla croce, seguita da una morte profondamente cristiana.Quale oggi la sua più grande eredità?Quello che mi colpisce di più oggi è la sua continua presenza nel cuore della gente, che vive un’autentica devozione nei suoi confronti. Penso che sia il frutto del suo particolare carisma di essere vicino alle persone che aveva davanti, ascoltando i loro problemi e facendosi carico dei loro problemi, pur conservando un certo "silenzio" di fondo, che nasceva dalla sua unione con Dio. Stava accanto alle persone rimanendo sempre unito a Dio, insomma. Da questo di certo nasceva la grande pace e serenità che trasmetteva sempre, pur essendo impegnatissimo – quando era con qualcuno non aveva mai fretta – e anche provato fisicamente. Davanti a lui si aveva subito l’impressione di avere a che fare con un uomo di preghiera. Questo, si può dire, era il «segreto» del suo carisma. E il suo cammino di preghiera era di certo cominciato già in età giovanile.Il suo Pontificato ha cambiato la storia: come viveva questo?Penso che ne avesse consapevolezza, ma non lo viveva con orgoglio umano; si sentiva piuttosto uno strumento di Dio. Era un figlio del Concilio e aveva un senso acuto e una chiara percezione dei segni dei tempi e sapeva esprimerlo con grande semplicità. La sola espressione «non abbiate paura» è stata fantastica, perché aveva percepito che i regimi totalitari, ma non solo, incutevano paura alla gente. La volontà di liberare la gente da questa paura ha guidato sempre i suoi interventi, come quelli che fece per Solidarnosc o quando scoppiò la prima guerra in Iraq. E in tutto questo l’unico suo strumento erano le parole: sapeva trovare quelle giuste al momento giusto con grande semplicità, vedeva dove era il male e dove era il rimedio. Ma ha sempre saputo ascoltare i collaboratori: lui personalmente ha avuto di certo delle grazie profetiche, eppure non dobbiamo pensarlo come un «profeta solitario», che sa tutto e decide tutto in autonomia. Sapeva domandare consiglio e sapeva confrontarsi con delicatezza.Nella "galleria dei santi" tra quali lo collochiamo?È stato un grande pastore che, come successore di Pietro, ha lavorato per l’unità della Chiesa – questo era l’intento dei suoi viaggi. E poi era un grande missionario. Nella missione ha aperto strade inedite, come quella della nuova evangelizzazione.Se dovesse rivolgere una preghiera al beato Giovanni Paolo II, cosa chiederebbe?Lo pregherei per la pace religiosa. Lui ha sempre chiesto che il fatto religioso venga riconosciuto e rispettato nell’odierna società secolarizzata, auspicando che i credenti di tutte le religioni siano artigiani di pace. In questo ambito Wojtyla è stato l’iniziatore di un cammino nel quale resta ancora molto da fare. E poi pregherei per la missione, così come la intendeva lui: un incontro di vita personale.
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