Sabino Chialà, priore della Comunità di Bose - Foto Bose
La guerra in Ucraina, che ha appena tagliato il tragico traguardo dei due anni, non ha solo insanguinato il continente europeo e ridisegnato i rapporti di forza geopolitici ma è alla base anche di un drammatico deterioramento delle relazioni tra le Chiese. La crisi interna al mondo ortodosso, in particolare quello che fa riferimento al patriarcato di Mosca, non potrà, infatti che avere ripercussioni negative sul cammino ecumenico nel suo insieme. Il dialogo che avrebbe dovuto fare da argine alla crisi non ha assolto questo compito. «Non solo non l’ha fatto, ma possiamo dire che per certi versi, e dobbiamo dire con tristezza: ancora una volta, le Chiese si lasciano usare come materiale bellico – osserva Sabino Chialà, priore della Comunità di Bose –. Non di rado, e oggi ancora in varie parti del mondo, Chiese e religioni, anziché arginare la violenza, le offrono argomenti e giustificazioni. Anziché disinnescare le paure che generano le guerre, le alimentano, assommando le loro ansie e i loro timori a quelli di poteri politici ed economici. Certo, la fede non abilita i credenti a disertare la storia. Tutt’altro! Condividono, compartecipano… Ma coltivando un altro sguardo che non si appiattisce; che provoca a guardare la storia, gli eventi, le sfide, i drammi con altri occhi. Ciò detto – prosegue il priore – vorrei aggiungere che non è il dialogo ad aver fallito. Il dialogo non fallisce mai, e va sempre ricercato. Non è mai tempo perso. Lo dimostra il fatto che ciò che più ogni guerra mira a distruggere non sono i corpi e i luoghi, ma le parole. Toglie e perverte le parole, perché lì ottiene la sua vittoria più efficace».
La riflessione di Chialà parte da un punto d’osservazione privilegiato. Sia a livello personale (tra gli altri incarichi è membro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa), sia per il ruolo di priore assunto due anni fa. Bose è infatti per sua natura una comunità ecumenica che ha il suo cuore in provincia di Biella e promuove apprezzatissimi convegni internazionali di spiritualità ortodossa. «Nella frammentazione attuale è più che mai necessario coltivare i legami. I convegni, che abbiamo ripreso ormai da due anni, sono per noi questo innanzitutto: un’occasione per conoscersi, per ascoltare insieme, ma anche per trascorrere insieme del tempo. Abbiamo anche ripreso a visitare realtà monastiche ed ecclesiali appartenenti alle Chiese ortodosse e della Riforma».
In che modo la crisi intraortodossa ha avuto ripercussioni sull’ecumenismo in toto?
Creando spaccature ancora maggiori nel già martoriato tessuto della comunione intraecclesiale che il movimento ecumenico cerca di ricucire e di tessere pazientemente da più di un secolo. E poi diffidenza e distanze che si accrescono. Alcune Chiese ortodosse hanno scelto di rompere la comunione con altre Chiese. Come conseguenza, hanno cominciato a disertare i dialoghi ufficiali. Questo solleva interrogativi importanti: il cammino fatto in assenza di alcune Chiese come sarà accolto da chi non vi partecipa? E dunque: ha senso continuare o sarebbe meglio attendere?
La Comunità di Bose in preghiera - Foto di archivio
Tuttavia, non mancano elementi positivi. Penso, nell’ambito dell’ecumenismo del sangue, all’inserimento nel martirologio romano dei 21 martiri copti, inserimento di cui ricorre in questi giorni il primo anniversario.
Credo che lì si stia sempre più aprendo una porta estremamente proficua: partire dalla santità vissuta e testimoniata e non limitarsi alle diatribe teologiche, non perché la teologia non sia importante, ma per giungere ad essa per aliam viam. Riconoscere la santità fiorita in un’altra Chiesa con cui non si è in piena comunione può avere effetti determinanti in vista del riconoscimento dell’ecclesialità dell’altra Chiesa. Peraltro, nel caso dei 21 martiri copti, papa Francesco non ne ha solo riconosciuto la “santità”, inserendoli nel martirologio romano, ma ha anche ritenuto valida e sufficiente la “canonizzazione” operata dalla Chiesa copta. Fatto non secondario.
C’è stato poi l’incontro ad Alessandria d’Egitto della Commissione internazionale mista per il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa con il documento su “sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi”.
A Chieti nel 2016 eravamo riusciti a produrre un testo su “sinodalità e primato nel primo millennio”. Un risultato non scontato, considerati anche gli anni che ci erano voluti. Ma indagare il medesimo tema nel secondo millennio era un’impresa che un po’ ci spaventava, perché si sarebbe trattato di indagare secoli in cui l’estraniamento progressivo tra Oriente e Occidente aveva provocato ferite dolorosissime. E poi tentarne una lettura “condivisa”, misurandosi con il fatto che ciò che per gli uni è tradizione, per gli altri è deviazione. Abbiamo avuto bisogno di molto ascolto reciproco, per cercare di sentire come un medesimo evento può suonare diversamente. Abbiamo cercato di non dissimulare le ferite, ma di guardarle insieme. Ora si può andare oltre e immaginare un’articolazione di sinodalità e primato nuova, adatta al terzo millennio.
Più volte il Papa ha sottolineato l’essenzialità del dialogo tra i cristiani. Davvero in questa stagione di sempre minore partecipazione alla vita delle Chiese, l’ecumenismo è l’unica via?
No di certo! E inoltre la sua importanza è legata alla sua capacità di testimoniare Cristo, altrimenti è vuota strategia ecclesiale. Oggi più che mai abbiamo bisogno di confrontarci sui grandi temi dell’esistenza con tutti, nessuno escluso. Non a prescindere da ciò in cui si crede, ma facendone un elemento di ricchezza per tutti. Peraltro il vero ecumenismo non mira a serrare le fila per escludere gli altri, ma ad aprire nuove vie di dialogo. Non mira a farci sentire più forti, perché più compatti, ma a radicarci più saldamente in Cristo, Signore di tutte le Chiese e di ogni essere umano, per poter guardare con i suoi occhi, e non con i nostri, il mondo, gli uomini e le donne del nostro tempo. Il vero ecumenismo apre sempre.